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Dal rinnovo dei vertici alle sfide private

Partite industriali e finanziarie aperte, dalla banda larga alle banche, e nomine di Stato. Sarà un anno delicato il 2024 per l’economia italiana, mentre il Pil continua a calare (+0,6% l’ultima stima di Banca d’Italia) e il taglio dei tassi, dice la Bce, non è nel breve orizzonte. Da un lato vanno al rinnovo i vertici di due colossi pubblici, Cassa depositi e prestiti e Ferrovie. La prima si è mossa nel solco istituzionale, ma resta un ganglio del potere con le tante partecipazioni. Dalle scelte governative su Cdp scenderanno a cascata quelle sull’economia: ad esempio su Tim dove Cdp è azionista al 10% e il Tesoro ha un ruolo rilevante, a maggior ragione se Vivendi dovesse uscire dall’azionariato, in una contesa ormai divenuta giudiziaria. Quanto a Ferrovie, come Cdp ha un patrimonio enorme, sopra i 41 miliardi (Cassa circa 40). Entrambe saranno motrici dei fondi del Pnrr, ma incentrare su Fs il dossier delle privatizzazioni, già avviato con Mps, non sarà facile. Anche Unicredit va al rinnovo del board: passaggio significativo dopo l’uscita dalla lista delle banche globali sistemiche, era l’unica italiana. Fra le osservate del 2024 c’è poi Mfe: l’ex Mediaset affronta il primo anno senza il fondatore Silvio Berlusconi, cerca l’estero e il giudizio positivo del mercato. (A cura di Alessandra Puato)

Tim verso la svolta, ma il balletto dei soci non è ancora finito

Il cantiere aperto da Tim per lo scorporo della rete e la creazione di NetCo sta procedendo a pieno regime. Tutto deve essere pronto per la fine del primo semestre 2024, quando è atteso il closing della vendita a Kkr, ministero dell’Economia e F2i con un incasso che può arrivare fino a 22 miliardi. Per il gruppo telefonico il 2024 si annuncia come l’anno della svolta, sul fronte del debito innanzitutto — 14 miliardi in meno —, ma anche del modello di business che si concentrerà su ServCo, la società destinata a contenere gli asset dei servizi una volta venduti la rete e i cavi di Sparkle (su cui è ancora aperta la trattativa con Kkr-Mef). La nuova società partirebbe con un fatturato pro forma di 13,5 miliardi, un margine operativo di 3,2 miliardi, 6,4 miliardi di debito e buone prospettive di creazione di valore, legate soprattutto al Brasile e alla parte Enterprise. Si tratta di un passaggio storico per Tim, dopo numerosi tentativi di scorporare la rete, rimasti fin qui solo sulla carta. Nel 2024 potrebbe esserci anche un’altro passaggio decisivo. Il primo azionista Vivendi, contrario all’operazione con Kkr, potrebbe dismettere il proprio 23,7%, costato finora quasi 3 miliardi di minusvalenza.

Un’opzione che sembrerebbe ancora più concreta dopo il ricorso, depositato lo scorso venerdì, con cui i soci francesi hanno impugnato la delibera del board sulla rete, ma senza chiedere di bloccare subito la cessione a Kkr. Il verdetto del Tribunale arriverà quindi nei consueti tempi (lunghi) della giustizia. Un modo per fare pressione, senza però ostacolare i piani di Tim e del Mef. Sulla strada definita dal ceo Pietro Labriola a questo punto non ci sono più ostacoli e in Borsa gli operatori hanno ricominciato a prendere posizione facendo salire i titoli Tim. Un recupero di valore andrebbe anche a vantaggio di Vivendi in caso di vendita. Possibilità che sul mercato viene accostata a un possibile ritorno dello Stato nel capitale del gruppo, qualora intervenisse una società pubblica come sembrerebbero auspicare i francesi. Intanto attraverso il Mef, il governo si è assicurato una presa forte sull’infrastruttura di tlc, per garantire la sicurezza nazionale e tutelare l’occupazione, avvicinandosi all’obiettivo della rete nazionale in attesa che Open Fiber si riorganizzi per dare vita alla rete unica. Un percorso che sarà slegato dal futuro di Tim/ServCo, per la quale si sta per aprire un nuovo capitolo. (A cura di Federico De Rosa)

Cdp al rinnovo: decisione politica, ma attenzione al mercato

Crocevia di tutte le partite che contano nel Paese, Cassa depositi e prestiti va al rinnovo dei suoi vertici il prossimo anno. Sembra ieri quando Dario Scannapieco, da 14 anni vicepresidente della Banca europea degli investimenti, e già direttore generale Finanza e privatizzazioni del Tesoro, fu nominato amministratore delegato e direttore generale di Cdp dal ministro Daniele Franco del governo di Mario Draghi. Una scelta quasi obbligata, visto lo stretto rapporto che legava (e lega) Scannapieco all’ex presidente della Bce. Il nuovo ad ereditava la Cdp «muscolare» disegnata su propria misura da Fabrizio Palermo, che ne aveva espanso la mission, puntando a mostrare la potenza di fuoco che la Cassa ha, anche in termini di partecipazioni strategiche detenute attraverso società controllate, come Cdp Equity, Cdp Venture Capital, Cdp Reti e il Fondo italiano d’investimento. Scannapieco su questo punto ha stravolto il modello, riportando Cdp a un ruolo più defilato e operativo e pensando prima di tutto a ricostituire quel capitale disponibile che era stato abbattuto a forza di acquisizioni e distribuzioni di dividendi.

È stato necessario anche affrontare alcune emergenze, ricapitalizzando società come Ansaldo Energia, Saipem, Trevi e Valvitalia per circa un miliardo. Ma la missione di Cassa, a detta di Scannapieco, non può essere quella di gestire direttamente le ristrutturazioni, quanto realizzare un giusto «ecosistema finanziario» per far crescere quelle che hanno potenzialità e aiutare quelle in difficoltà. Con questo obiettivo sono stati finora gestiti i vari fondi, compreso il piccolo «fondo sovrano» da un miliardo voluto dal governo. Ma la partita più importante che la storia ha riservato all’attuale gestione è l’operazione Tim, che non è ancora conclusa e che richiederà al successore altrettanto tatto. Quanto al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), il ruolo di Cdp finora è stato triplice: sta gestendo 5-6 miliardi di fondi, fornisce assistenza tecnica a 15 amministrazione centrali, verifica l’impatto delle misure finora finanziate. Chiunque prenderà in mano Cdp dovrà decidere se proseguire sulla linea attuale o piegare Cassa agli obiettivi più politici di questo governo, che trovano spazio soprattutto nella Lega, partito del ministro Giancarlo Giorgetti. Il che sposterebbe il baricentro di Cassa più a Nord. (A cura di Antonella Baccaro)

Ferrovie dello Stato: tra privatizzazioni e gare all’estero

Chiunque dal prossimo anno occuperà la poltrona di amministratore delegato nel palazzone romano delle Ferrovie dello Stato, dove oggi siede Luigi Ferraris, ha un compito da far tremare i polsi. Non si tratta solo di far marciare il piano decennale che prevede 200 miliardi di investimenti, 180 dei quali sulle infrastrutture (125 miliardi a carico di Rete ferroviaria italiana, Rfi) e il restante assegnato al miglioramento dei treni sulla rete ferroviaria. Ma c’è anche una buona fetta del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che ricade sulle spalle del gruppo. La controllata Rfi, in particolare, è al primo posto nella lista dei destinatari dei finanziamenti europei con una dotazione di 24,18 miliardi di euro per l’Alta velocità e i collegamenti diagonali. E nella graduatoria stilata per importo dei bandi messi a gara la stessa Rfi mantiene la leadership con bandi per 12,7 miliardi, cui vanno aggiunti i 2,4 miliardi di Trenitalia (al quinto posto in classifica). E se questo non bastasse, l’impegno assunto dal governo di realizzare 20 miliardi dalle privatizzazioni entro il prossimo anno mette le Ferrovie ai primi posti tra i possibili contributori. Un primo abbozzo di piano prevederebbe l’apertura ai privati non solo di Trenitalia, che è la parte piu redditizia, ma dell’intero gruppo.

L’obiettivo dunque sarebbe aprire il capitale della holding Fs, includendo dunque Rfi, attraverso la quotazione. Ma, come è noto a chi ha seguito finora i vari tentativi di privatizzazione, il problema è che la rete ferroviaria è di proprietà dello Stato, perciò va prima di tutto fissato il valore degli asset regolati e indicato in che modo l’investimento verrà ripagato. Un’operazione che richiede tempo e che vale anche per Anas che ricade nel perimetro di Fs holding. Non si parla di mesi ma almeno di un anno e mezzo. Tempo che pone l’operazione al centro del triennio di mandato del prossimo amministratore delegato. Infine chiunque sarà il successore di Ferraris (compreso lui stesso, che finora ha volutamente tenuto un profilo basso, lasciando parlare i fatti), dovrà proseguire nel piano di espansione europea di Fs. Un percorso già avviato in Francia, Spagna Grecia, Germania e Regno Unito. Obiettivo: un incremento dei ricavi esteri da 1,6 miliardi nel 2021 a circa 5 nel 2031. (A cura di Antonella Baccaro)

Unicredit, Orcel e quei tre anni di corsa: parola agli azionisti

Le grandi manovre sono già iniziate: mancano 116 giorni al 12 aprile, quando l’assemblea dei soci di Unicredit sarà chiamata a rinnovare il consiglio di amministrazione. Sono in scadenza, tra gli altri, il presidente Pier Carlo Padoan e l’amministratore delegato Andrea Orcel. Difficile ora delineare il futuro. Il management è impegnato nella chiusura d’anno, nel piano di buy-back azionario e il prossimo appuntamento pubblico è per giovedì 1 febbraio, quando il consiglio di amministrazione esaminerà i dati consuntivi dell’anno in corso, che verranno resi noti la mattina successiva. I risultati dell’ultimo triennio inducono a ipotizzare una ampia conferma delle posizioni di vertice: never change a winning team, dicono gli inglesi ed è difficile pensare al primo mandato di Orcel come a qualcosa di diverso da un periodo vincente. L’amministratore delegato di Unicredit, arrivato con fama di tradere di abilissimo negoziatore sorprese tutti sottraendosi due anni fa ad un accordo che sembrava fatto per l’acquisizione, molto incentivata, del Monte dei Paschi di Siena. Fu un coup de théâtre di cui Orcel non si è mai pentito. Il focus del manager è sempre stato la creazione di valore per i propri azionisti e i risultati si sono visti.

Il titolo Unicredit all’arrivo di Orcel quotava attorno agli 8,5 euro. In questo mese di dicembre ha superato quota 25 euro, prima di ripiegare la scorsa settimana a causa delle mutate prospettive sui tassi di interesse, nonostante diverse case di investimento lo vedano proiettato verso quota 30 euro. Il valore si è triplicato in tre anni. La capitalizzazione di Borsa è passata dai 15 miliardi di allora, ai 44,6 miliardi di questi giorni. Il gap nei confronti della banca leader sul mercato domestico, Intesa Sanpaolo, si è ridotto a meno di cinque miliardi. Erano ventisei miliardi di differenza due anni fa. Difficile su queste basi non pensare a confermare Orcel, uno dei manager più pagati del settore a livello europeo, che probabilmente chiederà un ulteriore ritocco alle proprie competenze. Ma questa sarà la battaglia dei prossimi 116 giorni. Gli azionisti si stanno muovendo sottotraccia, per formare le liste dei candidati amministratori, compresa quella che potrebbe essere presentata dal consiglio di amministrazione uscente, c’è bisogno di tempo e dovranno essere presentate entro domenica 3 marzo 2024, quaranta giorni prima dell’assemblea. (A cura di Stefano Righi)

Mfe, l’incognita Rai e l’ipotesi del polo tv con Parigi e Lisbona

Per MediaforEurope il 2024 sarà il primo anno senza il suo fondatore, Silvio Berlusconi. Le sfide non mancheranno per l’ex Mediaset, sul fronte nazionale e internazionale. Complice un’economia stagnante, nel 2023 la crescita degli investimenti pubblicitari ha rallentato. A soffrire è stata soprattutto la Spagna che, da anni motore dei profitti di Mfe, fra gennaio e settembre ha ridotto del 22% il contributo al margine di gruppo. In Italia, invece, ottobre e novembre hanno dato segnali di forte ripresa. In attesa del Natale, cruciale per le inserzioni, il ceo Pier Silvio Berlusconi ha stimato che Mfe chiuderà l’anno con una raccolta in aumento almeno dell’1,5%. Sul mercato domestico, piuttosto, Mediaset dovrà affrontare la crescente concorrenza di Warner Bros-Discovery, La7, Sky e — se davvero il governo alzerà il tetto pubblicitario dell’emittente pubblica per compensare il taglio del canone — della Rai. Dinanzi a queste sfide , comunque, Mfe si presenta in salute. Il gruppo dovrebbe chiudere l’anno con un utile netto pari o superiore ai 216 milioni del 2022, anche grazie al controllo dei costi e alle sinergie oltre le attese generate dalla fusione della filiale spagnola in Mfe.

L’attività ordinaria prosegue insomma secondo e meglio dei piani. Quanto alla straordinaria e «alle ambizioni europee», rimarca Intermonte, «il progetto di Mfe appare il più convincente». L’ex Mediaset ha già messo un piede in Germania, conquistando quasi il 30%, e quindi il controllo di Prosiebensat. Ha poi ottenuto due posti nel board e sta premendo affinché il conglomerato tedesco ceda le divisioni di dating ed ecommerce per concentrare gli investimenti sui media, in un momento di grande difficoltà per l’economia del Paese. Quali potrebbero essere i prossimi passi per rafforzare il polo paneuropeo delle tv? Non è da escludere che, ottenute le dovute autorizzazioni, nel 2024 Mfe possa salire ancora in Prosieben. Benché Berlusconi abbia precisato che «a brevissimo» non ci saranno novità, poi, le nuove mete più probabili appaiono Portogallo e in Francia. Da capire quale ruolo potrebbe, in caso, giocare Vivendi, che a maggio 2021 ha stipulato un accordo per uscire nel giro di cinque anni dal capitale del Biscione. Le azioni non hanno però mai raggiunto i prezzi previsti nell’intesa e così, a due anni e mezzo di distanza, il gruppo francese resta con il 23% il secondo socio (sinora) «silente» di Mfe.

 

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