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Come sta l’economia italiana? Bene, tutto sommato, stando alle previsioni dell’Istat che parlano di una di crescita del Pil dell’1% quest’anno e dell’1,1% nel 2025, in linea con i dati del governo, ma ben più ottimiste di quelle del Fondo monetario internazionale (0,7%) e della Banca d’Italia (0,8%). Crescono, in prospettiva, i consumi privati, gli investimenti, l’occupazione e – dato essenziale – le esportazioni (“Nel confronto internazionale il Made in Italy guadagna posizioni e batte anche gli smartphone cinesi”, rileva Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison).

Ci si muove, insomma, anche se in un clima denso di preoccupazioni, per le tensioni geopolitiche che non fanno intravvedere prossime favorevoli vie d’uscita dalle crisi (Ucraina, Medio Oriente) e per il permanere di irrisolte questioni di fondo: l’inverno demografico, i guasti ambientali, i disagi sociali (i salari sono fermi da vent’anni, come peraltro la produttività media del Paese), la “fuga dei cervelli” (132 mila laureati che hanno “votato con i piedi” e cioè sono andati via dall’Italia, negli ultimi dieci anni, secondo IlSole24Ore), ma anche un clima generale di disincanto, di scarsa fiducia, che si riflette pure in un dato che allarma il mondo politico: la crescente astensione, arrivata a superare il 50% degli elettori per le recenti consultazioni per il nuovo Parlamento Europeo (“Giovani disillusi e famiglie impoverite. Perché diserta le urne la metà degli italiani”, scrive la Repubblica).

La produzione industriale, è vero, è in caduta, dell’1% ad aprile, per il quindicesimo mese consecutivo e del 2,9% rispetto all’anno precedente, con una frenata accentuata nei settori dell’auto e della moda: rallentano i consumi e gli investimenti, a causa dell’elevato costo del denaro e dell’inflazione. E va male anche per i macchinari (“Pesa il mancato avvio del bonus Transizione 5.0”, avverte IlSole24Ore). Le imprese sono state prudenti, i consumatori timidi. E adesso che le scelte della Bce annunciano un taglio dei tassi ma anche il permanere di una certa preoccupazione sull’inflazione, che non tornerà facilmente al 2% in Europa, si può forse ricominciare lentamente a consumare, produrre, investire, far cambiare passo alla debole congiuntura. Vedremo.

Di certo, al di là dei dati congiunturali, sappiamo che l’apparato industriale italiano è robusto, tecnologicamente avanzato, pronto a ricominciare a correre. Come testimonia una recente inchiesta de IlSole24Ore sulle “eccellenze dell’industria”: “L’Italia dei robot è oltre quota 100mila, primi in Europa”, a eccezione del settore dell’auto.

La relazione annuale della Banca d’Italia, infatti, ha evidenziato la diffusione crescente dei mezzi di automazione industriale, documentando come dal 2017 a oggi “soltanto la Cina ha tassi di aumento superiori ai nostri”. E siamo arrivati alle 100mila unità installate, passando dall’ottava alla sesta posizione mondiale per stock grazie alla capacità delle imprese di usare bene le agevolazioni fiscali di Industria 4.0.

Possiamo andare ancora avanti bene, sostengono le imprese. Domenico Appendino, presidente di Siri (l’Associazione italiana di robotica e automazione), infatti, ricorda i vantaggi del piano di incentivazione Industria 4.0 (merito di Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo Economico dal 2016 al 2018) ma nota criticamente che “l’effetto annuncio del bonus 5.0 ha congelato il mercato, che da metà 2023 ha iniziato a contrarsi”.

Confindustria insiste sullo sblocco dei 6,3 miliardi previsti dal Pnrr per il credito d’imposta sugli investimenti innovativi, il ministero delle Imprese e del made in Italy assicura che il decreto è alle ultime limature. Di certo, la nostra industria, dopo la Grande Crisi del 2008, ha reagito, investito, innovato, trovato nuovi spazi sui mercati internazionali. E ha bisogno di scelte chiare e lungimiranti di politica industriale, europea e nazionale per poter continuare a crescere.

Una sfida aperta, sia per il governo sia per la Commissione che guiderà la Ue nei prossimi anni, dopo il rinnovo del Parlamento. Per una politica industriale che sappia affrontare, senza schematismi ideologici, la transizione ambientale e l’innovazione digitale, la diffusione dell’Intelligenza Artificiale, le politiche di sicurezza e sviluppo, le prospettive per le nuove generazioni di fronte alla concorrenza che arriva dai giganti economici Usa, Cina e India.

A fare macchine, gli italiani sono bravi. Straordinari ingegneri meccanici e meccatronici. Operai e tecnici eccellenti. Imprenditori e imprenditrici attenti alla qualità e al prodotto “su misura”, come se un’acciaieria, una macchina utensile, una confezionatrice o, appunto, una serie di robot fossero capi di alta moda, tagliati e confezionali seguendo le esigenze più sofisticate della committenza ovunque nel mondo. Capaci, insomma, di unire design e funzionalità, tecnologie d’avanguardia e sostenibilità ambientale (l’acciaio green è un’eccellenza italiana, con straordinari risultati nelle fabbriche lombarde, che potrebbero pur essere ottimi riferimenti per la ristrutturazione e il rilancio anche del complesso dell’Ilva a Taranto, con scelte politiche adeguate e una guida competente e sicura).

Nel panorama, vale la pena considerare anche la crescita di qualità delle nostre università e dei Politecnici di Torino e Milano (arrivato quest’anno all’111° posto e cioè tra i “top 8%” nella graduatoria QS di 1503 atenei mondiali) e il consolidamento delle relazioni tra centri accademici e imprese, mondo pubblico e settori privati tra ricerca, formazione e sperimentazione.   

Ecco il punto: insistere sul valore e sui valori dell’industria, per dare sostanza e futuro al Made in Italy. E indicarlo come orizzonte per le nuove generazioni. Per stimolare a tornare in Italia parte di quei 132mila laureati che se ne sono andati. E per attrarre ragazze e ragazzi da altre parti del mondo, per lavorare, fare impresa e ricerca, costruire qui nuove vite. Un buon modo per crescere. Ed essere davvero europei.

 

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