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Sono sempre di più i giovani che, per motivi di studio o lavorativi, scelgono di trasferirsi all’estero. Secondo il recente rapporto di Almalaurea, sette ragazzi e ragazze su dieci non pensano di tornare in Italia per lavorare. Più precisamente, il 38,4 per cento degli intervistati ha ritenuto «improbabile» il rientro: l’Italia non è abbastanza attrattiva. Le motivazioni comprendono stipendi più alti, contratti a tempo indeterminato e una miglior prospettiva di essere valorizzati a pochi anni dalla laurea. E, in particolare, maggiori investimenti nel settore high-tech che rendono l’estero sempre più attrattivo in un’epoca in cui la transizione digitale rappresenta la principale innovazione industriale. 

«I buchi neri dei tirocini infiniti, lo skill mismatch, un mercato del lavoro fatto di piccole micro-imprese e poco attrattivo, la mancanza di fondi alla ricerca superano i pochi e fallimentari incentivi e bonus fiscali introdotti dal governo per incentivare studenti o lavoratori a tornare», ha detto Giulia Pastorella, deputata della Repubblica italiana, vicepresidente di Azione, consigliera comunale a Milano e European Young Leader di Friends of Europe, durante la conferenza Come può la transizione digitale in Italia fermare la fuga dei cervelli” organizzata da Fondazione Cariplo in collaborazione con il think tank Friends of Europe.

Secondo la deputata di Azione, «è fisiologico, naturale e giusto che le persone giovani girino, che ci sia un flusso di capitale umano. Tuttavia, in Italia questa mobilità diventa una strada a senso unico». Ed è qui che emerge la differenza tra brain exchange, brain circulation e brain drain. Il brain exchange viene definito dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (Ocse) come il flusso di risorse intellettuali tra un Paese e l’altro, con uno spostamento equilibrato nei due sensi. Con brain circulation invece si inquadra un percorso di formazione e avviamento alla carriera, in cui ci si sposta all’estero per completare gli studi e perfezionarsi per poi tornare in patria. Brain drain, infine, è il caso in cui il flusso netto di capitale umano altamente qualificato è fortemente sbilanciato in una sola direzione e non avviene uno scambio ma un drenaggio, con una perdita di risorse umane per il Paese di origine. Ciò che sta avvenendo in Italia.

Lo sviluppo tecnologico degli ultimi trent’anni ha accelerato il processo di drenaggio di cervelli, dando vita a una nuova geografia del lavoro. L’economia post-industriale, basata sull’innovazione, ha reso più attrattive, globali e interconnesse tra loro certe aree, andando a svuotare e impoverirne altre. L’Italia, caratterizzata da una struttura industriale vecchia, piena di micro imprese e forte in settori ora in declino, fatica a mettere al centro dell’agenda l’innovazione tecnologica. 

«La transizione digitale va governata, è una scelta istituzionale. Ci devono essere competenza, autonomia nella gestione e concentrazione di capitale. Abbiamo tante eccellenze ma vanno sfruttate affinché rimangano in Italia», ha detto Leonardo Quattrucci, policy adviser presso l’European Political Strategy Center della Commissione europea, nella classifica Forbers degli «under 30» più influenti. «In Francia, il governo ha investito a marzo 2024 quasi mezzo miliardo in quattro startup nel settore della tecnologia quantistica, quella che è la rivoluzione alle porte. In Italia alcun investimento è stato fatto. Siamo in ritardo. Abbiamo eccellenze (PagoPA, Io) ma vanno sfruttate», aggiunge Quattrucci.

C’è è poi il tema dell’educazione al digitale, a oggi carente. Secondo quanto emerge dall’analisi condotta dall’Osservatorio Scientifico della non profit Movimento Etico Digitale, al settantaquattro per cento degli italiani nessuno ha insegnato a essere cittadini digitali, diversamente dal 47,6 per cento dei ragazzi europei. 

«Siamo un Paese che investe molto poco nel digitale, per quanto digitalizzata sia ormai l’economia mondiale. Abbiamo migliorato molto il tema della connettività, stiamo migliorando i servizi pubblici digitali ma siamo ancora terzultimi in Europa in tema di formazione digitale. Si cea così un divario tra infrastruttura e formazione che non fa altro che drenare, allontanare le competenze che creiamo», ha detto Lia Quartapelle, Deputata della Repubblica italiana e European Young Leader di Friends of Europe per il Partito democratico.

Tra mancanza di educazione al digitale, insufficienti investimenti nel settore high-tech e politiche poco lungimiranti e durature, l’Italia si trova a essere sempre meno attrattiva, innovativa e giovane. Per quanto agevolazioni fiscali e abbattimento di imposte abbiano contribuito al rientro di numerosi cervelli expat (si stima circa settantacinquemila mila lavoratori all’estero siano rientrati in Italia solo nel 2021), non basta, non avendo alcun effetto sul problema principale che l’Italia si trova ad affrontare, ovvero la mobilità a senso unico.

L’attuale Consiglio dei Ministri ha da poco rivisto parzialmente le misure a supporto degli expat italiani, riducendo gli incentivi a partire dal 2024. Attualmente, dopo tre anni di residenza fiscale estera, con la presenza di requisiti di qualificazione, lo svolgimento di attività di lavoro dipendente o professionale in Italia consente la detassazione del cinquanta per cento (sessanta per cento in caso di figli minori) del reddito imponibile per cinque anni.

Secondo Alfonso Fuggetta, professore ordinario di Informatica presso il Politecnico di Milano, Faculty Associate presso l’Institute for Software Research della University of California, Irvine e da maggio 2019 membro del Comitato Educazione-Impresa della Commissione Nazionale Unesco, «stiamo curando la broncopolmonite con l’aspirina pensando che dando un incentivo per non far scappar via i neolaureati per uno o due anni abbiamo risolto il problema. Per farli tornare abbiamo bisogno invece dell’antibiotico».

Fuggetta parla poi dell’effetto Giove, ovvero di quanto l’attrattività sia direttamente proporzionale alla dimensione di un pianeta, in questo caso di un’azienda. L’Italia, con le sue piccole e micro-imprese, raramente attrae investimenti esteri. È di gennaio 2024 la notizia dell’archiviazione del maxi investimento di Intel in Italia, che avrebbe dovuto costruire uno stabilimento per la produzione di microchip nella penisola. «In questo momento non c’è alcun progetto attivo, siamo focalizzati sugli stabilimenti in Germania e Polonia», ha dichiarato l’amministratore delegato di Intel Pat Gelsiger durante il World Economic Forum di Davos. Nel 2022 la società americana aveva avanzato la possibilità di costruire uno stabilimento dedicato all’assemblaggio e all’impacchettamento dei microprocessori proprio in Italia.

Giorgia Meloni, durante la conferenza stampa di fine anno, ha dichiarato che gli investimenti della società statunitense sul territorio nazionale sono una priorità assoluta per lo sviluppo dell’intero paese. L’investimento previsto ammonterebbe intorno ai 4,5 miliardi e avrebbe generato circa millecinquecento nuovi posti di lavoro.

A contribuire alla staticità del Paese è poi la complessità di un apparato burocratico che rallenta ogni processo di innovazione, tanto più nel settore del digitale, in costante evoluzione. «Non basta dare titoli o obiettivi: bisogna finanziare specifici progetti e team di ricercatori. Serve una semplicità del mercato che non vuol dire non regole, ma regole semplici. Bisogna abbandonare la volontà quasi maniacale di controllare ciò che non ha senso controllare che non fa altro che fossilizzarci», conclude Fuggetta.

Non è troppo tardi, insomma, per partecipare alla corsa tecnologica che sta avvenendo in tutto il mondo. La materia prima non manca, le competenze ci sono. Occorre orientarle nel modo giusto per non farsele sfuggire dalle mani.

 

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