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Le ultime elezioni europee hanno premiato gli euroscettici, che lo sono più nelle dichiarazioni che nei programmi. L’uscita dall’Europa oggi la sostiene solo il partito tedesco Afd. Negli anni passati l’avevano cavalcata il Partito Popolare Danese, il Partito delle Libertà in Austria, Perussuomalaiset in Finlandia, il Partito Nazionalista a Malta e il Front National in Francia. In Italia c’era Italexit, mentre Fratelli d’Italia nel programma elettorale per le Europee 2014 proponeva lo «scioglimento concordato dell’eurozona», così come aveva fatto la Lega. Ancora nel 2019 Claudio Borghi, all’epoca presidente della commissione Bilancio della Camera, aveva detto: «Uscire dall’euro sarebbe positivo per l’Italia». L’unico Paese che ha lasciato l’Ue è il Regno Unito. Vediamo come è andata.


Parte tutto nel 1993

A chiedere l’uscita dalla Ue fin dal 1993 sono gli indipendentisti dell’Ukip, che sotto la guida di Nigel Farage nel 2014 diventano il primo partito. Scalda gli animi snocciolando i vantaggi di una Brexit: stop ai versamenti al bilancio Ue, maggior controllo sulle frontiere e quindi sui migranti extracomunitari, meno vincoli alle alleanze commerciali e, infine, meno tasse per tutti. Farage mente perché nella Ue il Regno Unito sta solo nelle partite più convenienti: 1) è l’unico Paese membro a non aver mai contribuito al bilancio in base al proprio reddito, ma con uno sconto, scaricando sugli altri la differenza; 2) sta fuori dal pacchetto sicurezza Shengen, per esempio non accettando il mandato d’arresto europeo e frontiere completamente aperte; 3) non ha adottato il Trattato sulla stabilità (noto come Patto fiscale europeo) che costringe gli Stati a finanziare la propria spesa attraverso le entrate e quindi a limitare il ricorso al prestito; 4) non ha obblighi verso una più stringente integrazione all’interno dell’Unione Europea. Sta di fatto che il premier David Cameron, che aveva sempre negato un referendum sull’Europa, fa marcia indietro. Il 23 giugno 2016 si reca alle urne il 64,62% dei cittadini e, contro tutte le previsioni, vince il «Leave» con 51,9%. I negoziati durano più di 3 anni e infine a gennaio 2020 viene siglato il divorzio.


Le false promesse

Il Regno Unito, pur versando meno del dovuto, era un contribuente netto e riceveva meno di quanto versava, con un saldo negativo di 6 miliardi di euro all’anno. Oggi il contributo è scomparso, ma Londra non è diventata più ricca. Deve saldare il passivo che ha con Bruxelles: all’approvazione del bilancio comunitario, come fa ogni stato membro, si era impegnata a versare fondi, ricevendone altri in cambio (aiuti, fondi strutturali, progetti di ricerca). Secondo i conti fatti a luglio 2019 dall’Obr, l’Ente di controllo sul Bilancio statale, il debito era di 32,8 miliardi di sterline (qui a pagina 172). Nel 2024 ne resta da pagare ancora la metà, mentre il think tank britannico Ippr, calcola che quello che il governo riesce a stanziare è il 57% di quanto dava l’Europa (qui a pagina 28). Cresce la spesa pubblica: il ripristino delle frontiere, dogane e tutta la burocrazia connessa agli organismi pubblici di controllo ha comportato un aumento del personale di 100 mila unità (qui a pagina 10). Il Regno Unito ha perso l’accesso a quel mercato unico da 450 milioni di consumatori ricchi, non compensato dagli accordi commerciali con i Paesi del Commonwealth, mentre quello di libero scambio con Stati Uniti è naufragato. Il principale mercato di esportazione è ancora quello con la Ue, solo che ora Londra non ha più strumenti per influenzare le decisioni politiche europee.


Più costi, meno investimenti

Il Regno Unito avrebbe dovuto istituire una frontiera commerciale pienamente funzionante con l’Europa entro luglio 2020, ma di fatto il processo definitivo si concluderà il prossimo ottobre. Il problema è che fuori dagli standard comuni che facilitavano le importazioni, ora i nuovi controlli sui prodotti alimentari sono a carico delle imprese britanniche con un costo, secondo Allianz Trade, di 2 miliardi di sterline all’anno in più e conseguente crescita dell’inflazione dello 0,2% annuo (qui). Per il governo il conto annuale è più basso: 330 milioni di sterline (qui). Intanto per raffreddare l’aumento del costo della vita, sono state sospese per i prossimi due anni le nuove tariffe doganali su automobili, carburanti, metalli e beni alimentari, che rappresentano il 45% delle importazioni. L’Irlanda del Nord, invece, vivrà una condizione ibrida: è un pezzo del Regno Unito, ma rientra di fatto nella Ue e, pertanto, manterrà le norme del mercato unico sulle merci, Iva compresa (qui). I dazi doganali europei si applicheranno ai beni in entrata solo se esiste il rischio che vengano immessi nel mercato unico, ma non essendoci barriere fisiche è assai probabile che tutto quello che è problematico passerà da lì. Londra ha dovuto lasciare la Banca europea per gli investimenti (Bei) perché i suoi azionisti sono solo i Paesi membri dell’Ue. La Bei, che raccoglie fondi sui mercati ed eroga prestiti a condizioni favorevoli, nel corso degli anni ha investito nel Regno Unito 146 miliardi di sterline (6 all’anno) (qui a pagina 4), tra cui il tunnel sotto la Manica, gli ammodernamenti della metropolitana di Londra, lo sviluppo delle energie rinnovabili e l’efficienza energetica delle abitazioni. Oggi il governo riesce a mettere a disposizione solo 2,4 miliardi di sterline l’anno, meno della metà degli investimenti garantiti dalla Bei tra il 2009 e il 2016 (qui a pagina 5).


Calano commercio e produttività

Nel 2015 il Regno Unito era la quinta economia del mondo, nel 2023 è scesa al sesto posto. Le analisi più accreditate concordano: per Goldman Sachs dal referendum del 2016 il Paese ha avuto risultati inferiori alle altre economie avanzate, con una crescita più bassa e un’inflazione più alta (qui). L’immigrazione dalla Ue è calata drasticamente, mentre quella extra Ue è aumentata in modo significativo. I dati elaborati da Bloomberg evidenziano che dal 2016 il Pil è cresciuto del 6% contro il 24% di quello della Ue, mentre nei dieci anni precedenti la Brexit aveva guadagnato il 12% rispetto a quello medio europeo (qui). L’Ente di Controllo sul Bilancio statale nel report di marzo 2024 certifica: commercio meno 15%, produttività meno 4% (qui a pagina 43 e seguenti). Ne identifica le cause nelle nuove barriere sulle merci e nella parziale perdita di Londra del ruolo di hub. Già a partire dal 2016 banche e broker con sede nel Regno Unito, in vista dell’impossibilità a operare liberamente nei Paesi Ue, hanno spostato attività per 900 miliardi di sterline a Dublino, Parigi, Francoforte e Amsterdam (qui a pagina 13). Secondo il think tank londinese New Financial l’esportazione di servizi finanziari verso l’Ue è scesa del 18%, contro un più 4% verso i Paesi extra Ue.


È esploso invece quel mercato dei servizi finanziari tipici dei paradisi fiscali. «L’attuarsi della Brexit ha consentito al Regno Unito di liberarsi dei vincoli posti dall’Ue in termini di trasparenza», dice l’Istituto di Studi europei Alcide De Gasperi. Londra dovrà decidere se diventare una piazza tranquilla per evasori e riciclatori o blindare la reputazione di centro finanziario globale. Oggi la quasi metà dei paradisi fiscali in tutto il mondo sono dipendenze e territori britannici che, secondo le classifiche stilate dal Tax Justice Network, permettono, oltre all’attività di riciclaggio, un’evasione complessiva a danno degli altri Stati di oltre 160 miliardi di dollari l’anno (qui a pagina 2).


Cittadini più poveri

A differenza di quanto assicuravano i pro-Brexit il carico fiscale reale è aumentato: oggi, scrive l’Obr, è del 37,1%, il 4% in più rispetto al 2016 (qui). Crescono i prezzi dei beni primari, più 30% per gli alimentari, cala il potere d’acquisto di quasi 2.000 sterline l’anno sul reddito medio e il mercato del lavoro perde 1,8 milioni di posti. Ci guadagnano invece i super ricchi perché Londra ha smesso di applicare la norma europea del 2014 che imponeva un tetto ai bonus dei dirigenti di banche e società di investimento. Obr e Banca d’Inghilterra parlano di «compressione a lungo termine del potenziale economico del Paese dovuta alla Brexit». Per il National Institute of Economic and Social Research (Niesr) britannico gli impatti su commercio e produttività continueranno fino al 2035 (qui da pagina 5). A quella data gli investimenti nel Paese saranno inferiori di oltre il 32%, le esportazioni si ridurranno del 5% e le importazioni saliranno del 16% rispetto a quanto sarebbe stato se il Regno Unito fosse rimasto nell’Unione. Il mercato del lavoro perderà altri 1,2 milioni di posti con una decrescita del 10,1%. Tutto questo farà salire il costo complessivo dell’uscita dall’Ue a 311 miliardi di sterline (qui).


Eppure gli inglesi godevano delle condizioni migliori per stare nel «club», ma gli euroscettici hanno preferito raccontare un’altra storia. Oggi, di fronte all’evidente fallimento, scaricano le colpe sulla cattiva gestione politica. Intanto a pagare il conto salato sono i cittadini. Da fine luglio 2022 i delusi sono sopra il 50% e ormai si parla apertamente di Bregret (pentimento). L’ultimo sondaggio di YouGov è del 27 marzo 2024: contrario alla Brexit il 55%.

1 luglio 2024 | 06:27

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