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Chi era Franco Costabile? Era il poeta dal verso sorvegliato, il poeta della memoria dei borghi, riconosciuta nelle pieghe più riposte, il poeta che parla dal centro di una terra, la Calabria, di perdite non rimpiante, di inaccettabili consuetudini e di mortificazioni; era il poeta delle voci silenziose, delle voci ferite, di quelle ironiche e di quelle addolorate. A suo modo aveva saputo dare il proprio contributo essenziale in un angolo inesplorato di contemporaneità, nei tempi di un travaso progressivo dall’ancestrale radicamento al flusso inconsulto delle fughe e delle migrazioni nella nuova modernità, ovvero quel viaggio verso il nuovo mondo del dopoguerra, che rendeva via via più deserte le piazzette, i vicoli, le rughe, i vagli. Ma, guardandosi alle spalle, Costabile non s’illude che vi sia un universo da recuperare, piuttosto ne cerca la tipicità, il carattere, le dolcezze e la rabbia: la piana di ulivi, le guglie luccicanti dei covoni, i ponti fra i campi, le raspe dell’uva, il pane che si vende a credenza, i nuovi pali del telegrafo, diventano riferimenti per storie brevi di creature indifese o perse, amori passeggeri, ombre minacciose, caporioni, divise di carabinieri, ragazze illuse, donne del padrone, monelle al pianoforte, dialoghi al mercato, e volti e  destini da emigranti. Ma il poeta non racconta le storie in sé, le sfiora appena, le sorprende dal suo spazio d’osservazione, le puntella con uncini.

Se leggerete la poesia di Costabile la sentirete scorrere come l’olio. L’immersione nella parola vi sembrerà un’immersione nei luoghi della poesia, e vi rimarranno negli occhi gli ulivi e la pianura, le voci maledette e i richiami delle madri, il coltello in un vicolo buio e la proverbiale rosa nel bicchiere, logo sottile, resistente e ancestrale. E vi rimarrà nelle orecchie il senario da canzonetta, la cadenza del canto d’amore, della musica popolare a denti stretti. Si dovrebbe oggi intenderla, questa poesia, nella sua sostanza di familiarità con un Sud che va oltre le annose questioni rivendicative e il lamentoso racconto, alla cui soglia molti si fermano. L’incontro con questo “pianeta” parte dal basso, dall’esile trama degli abitati, dai sentieri sghembi, dai campi arati, dai mulini, dai gruppi di voci e di schiene piegate, che ci precedono e sopravvivono. Nell’insieme delle oltre duecento pagine che oggi compongono la sua opera, sotto il titolo-cappello di La rosa nel bicchiere (Rubbettino, 2024), che è un sigillo riconoscibile per questa scrittura, bisogna ammettere che il tono perentorio della lingua di Costabile, l’enunciato breve, incisivo, fatto di ripetizioni ed elementari allegorie e analogie, nascono da un paziente lavoro di smontaggio dell’antico idillio di rappacificazione con l’immagine, con il paesaggio, con le origini.

Le fragili, semplici, emblematiche figure che vi appaiono, talvolta chiamate per nome, talvolta pensate come apparizioni, disperdono il fumo di quella nostalgia che ha ridotto a miope sguardo da lontano molta poesia contemporanea. Così tante figure e azioni, ritorni e abbandoni, raccontano invece di un maledettismo moderno che Costabile tocca con mano intransigente, e quasi ne carezza e ne schiaffeggia l’eterogeneità, la promiscuità, così da riuscire a parlarci con un tono da ballata tragica, tragica perché irrisolvibile, tanto della bambina caduta nel fiume quanto degli innamoramenti, dei «silenzi addolorati», e dell’arroganza padrona che viola e violenta il femminile, e in egual misura corre con gli occhi alle dolcezze delle colline,  sorprende nei nascondigli le armi in attesa, girovaga nel bosco degli amanti come nelle tane dei collusi.

Senza ricorrere al solito gioco insano di ascendenze e somiglianze, sterile gioco per i poeti che hanno un loro specimen, non dimentichiamo che, per consonanze storiche, Franco Costabile appartiene a una generazione complessa qual è quella di Pasolini, di Zanzotto, di Cattafi, di Scotellaro, di Sanguineti, di Erba, e a questa mappa di diversità aggiunge le sue differenze. L’elemento che più d’ogni altro lo collegherebbe ai suoi naturali compagni di strada consiste nella forza di un linguaggio che rivendica il proprio essere tagliente, la capacità di pensare alla vita che sta sotto alla vita. Non è un fatto di oscillazione fra canto e denuncia, perché Costabile ha le idee chiare: è un poeta che lavora sull’immagine, che sa raccontare per lunghi poemetti dai versi brevi grazie ad associazioni concatenate, e lo fa anche per brevi flash, o si concentra in involontari haiku («Ulivi,/ costati/ di donne»), e in tutti i casi l’anello di congiunzione del  refrain ripetuto e il disegno fulminante hanno il tocco della durata dell’istante, dell’evidenza dell’infinitamente possibile perché messo alla prova  nella ripetizione di storie brevi, lievi, feroci («Ciò che accade/ di importante nel mondo/ nel tuo vicolo è un’eco/ sempre di crepacuore»). Ecco in rassegna, uno a uno, i caratteri d’una familiarità che va trattenuta con i denti, e che, com’è necessario, deve cambiare volto. È il cambiamento che dà il crepacuore, come per una creatura amata che non cresce o cresce male.

La poesia stessa si fa per Costabile nel discorso di un conflitto che porta a urtare la condizione umana immutabile, atavica e dolorosa, contro un adattamento all’instabilità inarrestabile della storia. In una poesia, ritengo degli ultimi anni, ottimamente ripescata da Giovanni Mazzei fra i versi sparsi pubblicati in varie occasioni (e ora disponibili nel bel volumetto di Rubbettino), scrive Costabile: «Qualcosa/ deve pure cambiare/ coi libri/ con le macchine/ con le stelle che/ aspettano./ Qualcosa/ deve invece ripetersi/ rassomigliare»).

Quanto alla tragica fine del poeta suicida a quarant’anni, l’intera opera in versi non ci propone la drammaticità di un limite o di un tormento, e si muove invece con un pensiero coinvolto e critico verso l’apparenza delle cose, di quel qualcosa che non può che commisurarsi al cambiamento come alla rassomiglianza, complementare fra ricerca e fedeltà. L’epilogo di una “vita tagliata” e scissa non motiva in alcun modo a ritroso le prospettive di questa materia poetica, sempre così essenziale e non psicologicamente chiusa. Il suicidio del poeta non riguarda il testo, non lo giustifica a posteriori, e non comunica affatto la consistenza di un pensiero del limite che si fa scrittura. L’immagine del mondo, della terra, dei paesi e delle figure, è pensata in questa poesia come storia dei costruttori di esistenze. La forte divaricazione fra gli accadimenti e il desiderio diventa per Costabile una trafittura che pungola quel pensiero, ma non lo porta verso la morte, se non per l’accidentalità di certe tenere esistenze finite nel nulla o soffocate dagli avvenimenti quotidiani.

Costabile non è un poeta viscerale, né lo scrittore delle sue passioni, e del resto nelle sue pagine il ricorso all’autobiografia è sempre indiretto e mediato. È piuttosto il poeta di una dimensione tradita che si riesce a capire se intesa come storia di un vissuto collettivo, turbato dalle contraddizioni, tormentato dalla coscienza dell’impossibilità di un idillio gratificante. Proprio per questo motivo la sua prospettiva non è solo quella della Calabria, o del Meridione, ma è nel respiro ampio di una storia precaria che accomuna epoche e continenti interi, come dicono gli endecasillabi di Mio cortile:

«ma la sera del mondo non sa dire,
perché il mondo è più triste dei suoi spazi».  

Il turbamento della contemporaneità che travolge il mondo arcaico, con le sue ferree regole e con le sue velocità (quel mondo in bianco e nero che, utile ai giovani, riemerge dai documentari di Vittorio De Seta), è pienamente superato nel racconto della poesia che ci offre Franco Costabile. È pienamente superato da una scelta di linguaggio molto precisa: essa riguarda la contaminazione fra le immagini, e non s’affida a nostalgie retrograde né a scappatoie ideali e narcisistiche. La poetica aperta di Franco Costabile coltiva il rispetto del tempo e dei tempi, recalcitrante contro il destino degli esiliati, docile verso le identità riconoscibili nella parola della sua poesia.

Luigi Tassoni

**

Scalpita la mula

Dorme il gallo
e continua la luna
oltre i canneti.
Una lanterna
già nel vicolo è accesa
scalpita la mula:
è l’alba calabrese
che ruba al contadino
anche il sonno.

*

Dopo il vino e la donna

Il proprietario
dorme al pergolato,
dopo il vino e la donna.
Lontano,
a un orizzonte di calura,
continua all’aratro
l’ecce homo.

*

È del padrone

La terra
che attraverso
prima del gallo
è del padrone.
Il grano
che mi cresce
sotto gli occhi
mattina per mattina
è del padrone.
I colpi di fucile
che vengono dal fiume
sono del padrone.
Le donne,
le risate sull’aia
a mezzogiorno
sono sempre del padrone.
Ma il sole che mi scalda
non è del mio padrone.

*

I pali del telegrafo

I pali del telegrafo,
ecco che c’è di nuovo
al mio paese.
Parole lunghe
traffici di prefettura
fonogrammi neri
che vanno e vengono
dalla questura.
Ma c’è di bello
che i passeri sui fildirame
se ne stanno a cantare
tutto il giorno
e a non saperne niente

*

La rosa nel bicchiere

Un pastore
un organetto
il tuo cammino.
Calabria,
polvere e more.

Uova
di mattinata
il tuo canestro.
Calabria,
galline
sotto il letto.

Scialli neri
il tuo mattino
di emigranti.
Calabria,
pane e cipolla.

Lettera
dell’America
il tuo postino.
Calabria,
dollari nel bustino.

Luce
d’accetta
l’alba
dei tuoi boschi.
Calabria,
abbazia di abeti.

Una rissa
la tua fiera
Calabria,
d’uva rossa
e di coltelli.

Vendetta
il tuo onore.
Calabria,
in penombra,
canne di fucili.

Vino
e quaglie,
la festa
ai tuoi padroni.
Calabria,
allegria
di borboni.

Carrette
alla marina
la tua estate.
Calabria,
capre sulla spiaggia.

Alluvioni
carabinieri,
i tuoi autunni,
Calabria,
bastione
di pazienza.

Un lamento
di lupi,
i tuoi inverni.
Calabria,
famigliola
al braciere.

Francesco di Paola
il tuo sole.
Calabria,
casa sempre
aperta.

Un arancio
il tuo cuore,
succo d’aurora.
Calabria,
rosa nel bicchiere.

*

Abbassa i tuoi cieli,
o Signore, e discendi:
i servi non sanno
in quale strada è la luce,
pur se il buio attende
anche occhio dei ricchi.
Tu che innalzasti
con sapienza i ghiacciai
e assisti nel parto le cerve,
tocca i loro comignoli,
falli fumare; tu soltanto,
che hai creato le rose
e le loro ossa già secche.

Franco Costabile

 

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