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Un miliardo e mezzo di euro dal gruppo Exor-Cnh. Decine di milioni dalle grandi banche tricolore. Ecco chi finanzia le società agroalimentari sotto accusa per i roghi che stanno distruggendo il polmone verde del pianeta. L’inchiesta de L’Espresso con Disclose e altre testate europee

Dietro gli incendi delle foreste dell’Amazzonia ci sono anche soldi italiani. Finanziamenti per decine di milioni concessi dalle maggiori banche del nostro Paese. E prestiti commerciali per somme molto più alte, per un totale di circa un miliardo e mezzo di euro, che arrivano da società finanziarie con la targa italo-olandese del gruppo Exor, che controlla anche la Fiat.

I roghi dolosi che da anni continuano a distruggere le foreste del Brasile, il polmone verde del pianeta, si sviluppano al livello di base dell’industria agroalimentare: il fuoco è l’arma per conquistare nuova terra per gli allevamenti di bestiame e le coltivazioni intensive di soia e olio di palma. Prodotti acquistati dai colossi multinazionali e rivenduti nei supermercati di tutto il mondo.

Questa inchiesta giornalistica internazionale, realizzata da L’Espresso in collaborazione con Disclose e altre testate europee, ha ricostruito l’intera catena economica che lega gli incendi in Amazzonia con il cibo che arriva nelle nostre case. I dati raccolti permettono di quantificare, per la prima volta, i finanziamenti concessi da banche e società di 15 Paesi dell’Unione europea, dal 2013 al settembre 2022, alle aziende agricole che sono state accusate pubblicamente di beneficiare della deforestazione dell’Amazzonia. Una cifra enorme: oltre 17 miliardi di euro.

L’inchiesta ha seguito il metodo di lavoro di giornalisti, ricercatori e ambientalisti brasiliani che hanno fatto luce su uno dei disastri ecologici più gravi degli ultimi anni. Erano trascorsi appena undici mesi dalla data passata alla storia del Brasile come «il giorno del fuoco»: 1.457 incendi contemporanei che il 10 agosto 2019 devastarono il Nord dell’Amazzonia. Tra l’11 luglio e il 17 agosto del 2020 una nuova serie di centinaia di roghi dolosi distrugge altri 116 mila ettari di foreste nel Mato Grosso, una superficie pari all’intera metropoli di Rio De Janeiro.

Esclusivo

Le banche europee e italiane hanno dato 17 miliardi alle aziende dietro i roghi in Amazzonia

Paolo Biondani e Pietro Mecarozzi

28/11/2022


I cronisti di Reporter Brasil e i ricercatori dell’istituto Centro De Vida si mettono a indagare, nell’inerzia quasi totale delle autorità, e riescono a localizzare i focolai d’innesco, utilizzando le foto aeree della Nasa e dell’Ente spaziale brasiliano (Inpe). Quei dati vengono incrociati con le mappe catastali, i registri societari, i contratti di forniture agricole. I documenti mostrano che tutti gli incendi sono partiti dai confini di cinque proprietà private. Tra cui spiccano due grandi fattorie che vendono carne e soia a due giganti agroalimentari brasiliani, i gruppi Amaggi e Bom Futuro. Che a loro volta risultano fornitori, nello stesso periodo, di multinazionali come Jbs, Marfrig e Minerva, che rivendono quei prodotti in tutto il globo.

Con lo stesso metodo, i giornalisti di Disclose, una testata francese indipendente, con lo status di organizzazione non governativa senza fini di lucro, hanno identificato oltre 300 società agroalimentari che risultano coinvolte nella deforestazione delle aree più verdi del Brasile, dal Mato Grosso al Cerrado. Questa lista nera si fonda su rapporti ufficiali delle autorità di controllo, magistratura, forze di polizia dello stesso Brasile, oppure su studi e ricerche delle maggiori organizzazioni mondiali di tutela dell’ambiente, da Global Witness a Greenpeace, dal Wwf a Earthsight. Identificate così le aziende a rischio, sono state analizzate le loro fonti di finanziamento, grazie alla massa di dati economici resi pubblici dai ricercatori di Forest and Finance. Il risultato, per l’Europa, è un elenco di oltre 12 mila prestiti, emissioni di obbligazioni, investimenti azionari: 17 miliardi e 516 milioni di euro, versati da 230 banche o società finanziarie della Ue a gruppi agroalimentari accusati di rifornirsi da fattorie e allevamenti brasiliani implicati negli incendi.

Dal 2019 ad oggi, sotto il governo di destra guidato dal presidente uscente Jair Bolsonaro, che il prossimo primo gennaio dovrà cedere il potere al leader rieletto della sinistra Ignacio Lula da Silva, la deforestazione ha raggiunto i livelli più alti della storia brasiliana. Nell’agosto 2022 si è registrato il nuovo record assoluto di 3.358 roghi contemporanei, più del doppio del «giorno del fuoco» di tre anni fa.

Tra le banche italiane, secondo i dati di Disclose, la più esposta è Unicredit, che in questi dieci anni ha finanziato con 36 milioni e mezzo soprattutto società che producono e vendono soia brasiliana. Il primo di questi clienti è la multinazionale Archer Daniels Midlands (Adm), che ha ricevuto prestiti per 16,2 milioni. Seguono Olam con 7 milioni, il gruppo cinese Cofco con 5,4, la società Dreyfus con 4,4 e la multinazionale Bunge con 3,2 milioni. Sotto la presidenza di Bolsonaro, Unicredit ha aumentato questi finanziamenti, saliti da 2,8 milioni del 2019, a 3,5 del 2020, a 4,6 milioni del 2021.

Al secondo posto, tra le banche tricolori, c’è Intesa San Paolo, che ha concesso prestiti per oltre 21 milioni ai colossi della soia e della carne: 6,8 milioni per Olam, 5 per Adm, 4,7 per Cargill, 2,9 per Bunge. Anche Intesa non si è fatta influenzare dalle polemiche sul boom della deforestazione negli anni di Bolsonaro. La banca italiana, che nel 2013 prestava poco più di un milione a tutto il settore agricolo brasiliano, nel 2020 e 2021 ha quintuplicato i finanziamenti, versando più di cinque milioni all’anno alle aziende più criticate dalle maggiori organizzazioni ambientaliste.

Alle domande inviate da L’Espresso il 30 novembre scorso, Intesa San Paolo ha risposto con una nota scritta, chiarendo che tutti i gruppi agroalimentari finanziati in questi anni «sono grandi operatori internazionali verticalmente integrati che hanno implementato al loro interno processi di risk management». Anche la banca italiana, prosegue la nota, «continua a implementare le policies legate ai temi della sostenibilità ambientale (Esg) e al governo dei rischi». Mentre «i rapporti con le autorità brasiliane non hanno mai avuto ripercussioni sull’operato della banca e nelle relazioni con i propri clienti». «Le esposizioni in essere nell’agribusiness in Brasile sono limitate», conclude il gruppo Intesa San Paolo, che sottolinea di applicare, nelle procedure di finanziamento, «diversi processi interni di controllo» per verificare il rispetto dell’ambiente e la sostenibilità ecologica delle produzioni agricole, in particolare «il processo di Omr (Operazioni di maggior rilievo), il Clearing, la Settorizzazione, l’Individuazione dei settori sensibili e il presidio dei rischi Esg. Tali policies interne sono accessibili pubblicamente dal sito del gruppo», consultabile qui.

Il Monte dei Paschi, la storica banca di Siena da tempo in gravi difficoltà, è chiamata in causa per 10 milioni e 641 mila euro prestati nel 2013 al gruppo Amaggi, per estendere le coltivazioni di soia. Il colosso brasiliano appartiene a una famiglia di miliardari di lontana origine italiana ed è intitolato al fondatore, Andre Maggi. Suo figlio ed erede, Blairo Maggi, è stato anche ministro, senatore e governatore del Mato Grosso. Nel 2006 Greenpeace gli ha assegnato l’ironico premio mondiale per la deforestazione: la «motosega d’oro». L’altro ramo della famiglia, guidato dal cugino Erai Maggi, controlla il gruppo Bom Futuro.

Azimut è un gruppo finanziario italiano con una società di gestione del risparmio che ha scoperto l’Amazzonia negli ultimi mesi. Tra gennaio e settembre 2022 ha investito 7,7 milioni di euro in società estere ora chiamate in causa per la deforestazione. Azimut ha comprato soprattutto azioni di Slc Agricola, per 6,2 milioni, e ha investito altri 667 mila euro in Cresud, 338 mila in Jbs, 185 mila in Adm e 103 mila in Minerva. Almeno fino a tre mesi fa, dunque, il gruppo italiano era tra gli azionisti di questi giganti della soia, carne e olio di palma.

Cnh Industrial è un colosso delle macchine agricole, camion e trattori controllato dal gruppo Exor. Ne fanno parte diverse società nate in Italia dalla casa madre Fiat. Dal 2016 l’intero gruppo ha trasferito la sede legale in Olanda. Un’operazione contestata dall’Agenzia delle Entrate, che ha spinto Exor a chiudere la vertenza, l’anno scorso, versando 950 milioni al fisco italiano. Cnh controlla anche una rete di società finanziarie, che fanno da banca domestica: prestano soldi ai clienti che comprano le macchine. Questo sottogruppo, Cnh Industrial Capital, ha prestato almeno un miliardo e 450 milioni di euro a società agroalimentari che ora compaiono nella lista nera dell’Amazzonia.

In questi dieci anni i prestiti sono più che decuplicati. Nel 2013 ammontavano a 15 milioni. Nel 2019, quando è salito al potere Bolsonaro, sono saliti a 198 milioni, nel 2020 a quota 215. Nel 2021 si sono fermati a 160 milioni. Gli affari proseguono, con altri 76 milioni prestati tra gennaio e settembre di quest’anno.

Cnh ha prestato diversi milioni direttamente ai colossi brasiliani della soia e della carne, come Bom Jesus e Amaggi. In gran parte dei casi, però, il gruppo fa intermediazione finanziaria tra i produttori, che comprano le macchine, e il programma statale che versa i sussidi pubblici all’agricoltura brasiliana. Queste operazioni, dove la controparte registrata è l’apparato pubblico, ammontano a un miliardo e 276 milioni.

L’Espresso ha indirizzato una lunga serie di domande a Exor e Cnh. Le due società hanno risposto con una nota scritta precisando che il gruppo opera in Brasile attraverso la controllata locale «Banco Cnh Industrial Capital», che «da più di vent’anni finanzia gli acquisti di macchine per l’agricoltura, costruzioni e trasporti»: «Si tratta di una società vigilata dalla Banca Centrale del Brasile, per cui è tenuta a un rigoroso rispetto di tutte le leggi e regolamenti. È importante sottolineare che il sistema finanziario brasiliano è altamente regolato, con molteplici norme dirette a favorire un’agricoltura sostenibile. Il quadro legale è migliorato negli anni e ha spinto l’intero sistema a controllare l’applicazione delle regole ambientali, imponendo anche la chiusura dei prestiti, con multe e sanzioni, per i clienti che risultino non in regola».

«Banco Cnh Capital sostiene la crescita sostenibile del Brasile», conclude la nota del gruppo, e si impegna a «non finanziare soggetti o società coinvolte in attività illegali»: «Tutti i clienti, per ottenere prestiti, devono sottoporsi a procedure di controllo (due diligence) che includono verifiche sui dati raccolti dalle agenzie statali e su condanne penali o civili».

Il problema, evidenziato da questa inchiesta giornalistica, è che la catena agroalimentare è molto lunga, è composta da moltissime aziende di Paesi diversi, ma non esiste alcuna autorità internazionale in grado di controllare l’intera filiera dall’inizio alla fine. Di fatto il sistema funziona a compartimenti stagni: la banca europea finanzia la multinazionale, che compra dal gruppo cinese, che si rifornisce dalla piccola fattoria dell’Amazzonia, che resta l’unica coinvolta direttamente negli incendi. I dati raccolti da Forest and Finance e Disclose, quindi, non provano responsabilità legali: sono dati soltanto economici, che per la prima volta illuminano l’intera catena alimentare, dalle foreste dell’Amazzonia alle nostre cucine.

Nelle liste dei finanziatori delle aziende a rischio compaiono anche società finanziarie controllate da industrie tedesche delle auto, con cifre molto inferiori a Cnh: Volkswagen Financial Services risulta aver prestato 121 milioni, Mercedes Finance 54. I massimi finanziatori europei sono banche straniere, di gran lunga più esposte di quelle italiane. Al primo posto assoluto c’è il gruppo spagnolo Santander, con 8 miliardi e 616 milioni, al secondo l’olandese Rabobank, con 5 miliardi e 159 milioni. In Francia svetta Bnp Paribas con 473 milioni, in Germania la Deutsche Bank con 271 milioni.

L’Espresso ha inviato domande dettagliate a tutte le banche e società finanziarie italiane citate in questo articolo, alcune delle quali per ora non hanno replicato. Anche le loro eventuali risposte verranno pubblicate sul nostro sito.  

Tutti i gruppi italiani hanno comunque spiegato di non aver mai voluto né accettato consapevolmente di contribuire alla deforestazione dell’Amazzonia – e L’Espresso non ha raccolto alcun indizio in grado di contraddire questa affermazione – ma non hanno smentito nessuna delle notizie (cifre dei finanziamenti e nomi delle società beneficiarie) pubblicate in questo articolo.

 

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