Le agevolazioni fiscali alle imprese sono di dimensioni rilevanti, protratte nel tempo, con effetti non particolarmente apprezzabili su investimenti e innovazioni e contribuiscono a peggiorare la distribuzione del reddito. Vediamo perché.
Nelle ultime «Considerazioni finali» del Governatore della Banca d’Italia si legge che il problema principale che l’economia italiana deve fronteggiare è costituito dal basso e declinante tasso di crescita della produttività del lavoro e che, per farvi fronte, occorre accrescere il credito d’imposta per le imprese (dal 10% attuale al 20%), armonizzandolo alla media Ocse. La diagnosi è corretta e ampiamente nota: sia qui sufficiente ricordare che Istat rileva che, dal 1995 al 2022, la produttività del lavoro in Italia è aumentata solo dello 0.5%, a fronte di una media europea dell’1.3%. La prescrizione di politica economica appare, per contro, discutibile, per le seguenti ragioni.
1) Innanzitutto, le imprese italiane hanno già ricevuto abbondanti sconti fiscali. Inps stima, a riguardo, che il totale delle agevolazioni fiscali ammonta a circa 20 miliardi annui (per comprendere l’ordine delle grandezze, si può pensare al fatto che il reddito di cittadinanza è costato alla fiscalità generale meno di 10 miliardi nel medesimo periodo). In più, la spesa pubblica per incentivi alle imprese è anche differenziata su basi territoriali: nell’ultimo rapporto Svimez si legge che è cresciuta del 16% nell’ultimo anno al Sud, a fronte di un aumento del 26.4% al Centro-Nord. La minore presenza di grandi imprese interessate all’ammodernamento tecnologico e digitale spiega questa differenza.
2) In secondo luogo, le agevolazioni fiscali non hanno avuto effetti significativi sugli investimenti e sulle innovazioni. La spesa pubblica e privata per ricerca e sviluppo resta eccezionalmente bassa, come è bassa e in riduzione l’intensità tecnologica delle produzioni italiane, misurata dal rapporto fra spesa in ricerca e sviluppo sul totale degli investimenti privati. L’ultimo Rapporto Istat certifica che la quota di profitto è cresciuta dell’1,9% tra il terzo e il quarto trimestre del 2022 e del 3% rispetto al quarto trimestre del 2021. Gli investimenti privati, per contro, sono aumentati quasi esclusivamente nel settore delle costruzioni, come conseguenza sia dell’ «effetto di rimbalzo» post-pandemia, sia delle agevolazioni fiscali del Superbonus, del tutto eccezionali e ritenute non riproponibili. Uno studio recente della stessa Banca d’Italia (giugno 2024), «Incentives for dwelling renovations: evidence from a large fiscal programme» di Antonio Accetturo, Elisabetta Olivieri e Fabrizio Renzi, rileva che l’effetto moltiplicativo del «Superbonus» e del «Bonus facciate» sul Pil italiano è stato inferiore all’unità, ovvero più basso di quello di norma conseguibile con un programma di investimenti pubblici di analogo finanziamento. Occorre però ricordare che queste misure sono state pensate come risposta alla crisi pandemica e che comunque si inseriscono in una serie di interventi di lungo periodo per incentivare il settore delle costruzioni, a partire dalla fine degli anni Novanta.
Molti economisti hanno messo in evidenza che la detassazione dei profitti non produce crescita a causa del problema che viene denominato profits-investments puzzle: le imprese tendono a reagire agli sconti fiscali allocando risorse nei mercati finanziari, nella pubblicità, nei consumi improduttivi, non investendo e neppure innovando.
3) In terzo luogo, le agevolazioni fiscali contribuiscono ad aumentare le già elevate diseguaglianze. L’aumento della detassazione dei profitti, che configura quello che si può definire il capitalismo dei sussidi (che trova la sua massima espressione nell’Inflation Reduction Act statunitense), segnala il fatto che lo Stato, in Italia e non solo, redistribuisce risorse dai percettori di redditi bassi e fissi a vantaggio delle imprese private. La distribuzione del reddito post-tax è peggiore di quella pre-tax, segnalando appunto la redistribuzione «a contrario« operata dal settore pubblico: la tassazione diviene, dunque, sempre meno progressiva e il sistema tributario sempre più lontano da quanto prescritto dal dettato costituzionale.
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