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Nei giorni scorsi l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc) ha siglato un accordo con il Ministero dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste (Masaf) che interviene in maniera inedita sulla gestione e valorizzazione dei terreni confiscati alle mafie. Per la prima volta si prevede che siano messi «a disposizione di giovani imprenditori agricoli» che dovranno esercitare l’attività imprenditoriale contestualmente alla «realizzazione di iniziative a favore di soggetti con disabilità e immigrati, nonché iniziative a carattere didattico e divulgativo».

Diversi aspetti di questo accordo non ci convincono. Innanzitutto, appare di fatto svuotato di senso il principio del riuso sociale dei beni confiscati contenuto nella legge 109 del 1996: è sufficiente, per affermarlo nel concreto, prevedere sui terreni agricoli alcune sporadiche attività sociali del tutto accessorie a quelle lucrative e imprenditoriali? A nostro avviso no, a maggior ragione non essendo previsti nessun vincolo o valutazione qualitativa delle attività.

L’accordo Ansbc-Masaf riconosce ai privati l’esclusività nella valorizzazione dei beni, mettendo così fortemente in discussione una grande conquista degli ultimi decenni: il riconoscimento del riutilizzo sociale dei beni confiscati come leva di emancipazione del territorio in cui la criminalità organizzata si è infiltrata, come risorsa per superare ostacoli e perseguire le aspirazioni delle comunità, grazie anche alla capacità delle realtà di Terzo settore che lì operano. Al Terzo settore, invece, non fa alcun cenno l’accordo, che punta a mettere in campo strumenti alternativi rispetto a quelli identificati dalla normativa esistente e nello specifico dal Codice Antimafia, che già prevedono il coinvolgimento di soggetti di agricoltura sociale, imprese e cooperative sociali.

La presenza capillare del Terzo settore e la sua capacità di generare valore sociale ed economico, anche a partire dalle ferite di territori e persone, rendono il suo contributo ineguagliabile per lo sviluppo delle comunità. Che l’attuale sistema di assegnazione al Terzo settore dei beni confiscati e la loro gestione abbiano limiti importanti è cosa nota: oltre a problemi burocratici, ciò che pesa di più è l’assenza di risorse per riqualificare e mettere in efficienza i beni. Senza queste, per realtà del Terzo settore o Enti locale è molto difficile poter prendere in carico un bene spesso abbandonato da anni o fatiscente, rimetterlo in uso e assicurare lo svolgimento di durature attività di interesse generale. E a poco serve la lodevolissima eccezione della Fondazione con il Sud che rappresenta, come al solito, una goccia nel mare dei bisogni.

Eppure ci sono risorse cospicue che provengono proprio dai beni mobili sequestrati e confiscati alle mafie, che confluiscono nel Fondo Unico per la Giustizia e che potrebbero essere utilizzati, almeno in parte, per riqualificare questo immenso patrimonio. La risposta delle istituzioni, invece, sta andando in direzione opposta: la revisione del Pnrr nel 2023 ha tagliato i 300 milioni previsti per la misura dedicata a valorizzare i beni confiscati alle mafie, non prevedendo alcun meccanismo di rifinanziamento. E il recente accordo Anbsc-Masaf rischia di essere un ulteriore, preoccupante passo verso il disinvestimento sociale.

C’è quindi bisogno di maggiore sostegno economico e politiche più efficaci per realizzare quel modello di sviluppo che integra economia, legalità e coesione sociale, a cui si ispira il riuso sociale dei beni confiscati così come concepito dalle nostre leggi e rappresentato da tantissime esperienze positive sul territorio.

Portavoce del Forum Terzo Settore



 

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