Vecchiaia a 70 anni, meno assistenzialismo per chi non ha versato contributi, più controlli per evitare truffe ed evasione: ma quale politico vorrà farla?
La società italiana, come quella di tutti i Paesi ad alto e medio reddito, si è trasformata e invecchia. Nel 1939 l’aspettativa di vita alla nascita era pari a 59 anni e mezzo, per poi scendere nel 1943 a causa della Seconda guerra mondiale a 49, e risalire a 59 anni nel 1946. Quindi, dalla fine della Seconda guerra mondiale in Italia la vita media si è allungata di oltre 23 anni.
Sempre nel 1939 la mortalità infantile nei primi 5 anni di vita colpiva 170 nati ogni mille ma molti altri non arrivavano ai 18 anni e oggi si è pressoché azzerata e la popolazione che era per oltre la metà rurale e agricola è occupata nell’industria e nel terziario.
Per le donne, la metà della popolazione italiana, la parità di genere non è completamente raggiunta ma rispetto al 1946, quando con enorme ritardo è stato dato il diritto di voto, oggi le scuole superiori e l’università vedono una prevalenza femminile. Per tutte queste ragioni la demografia per il nostro Paese è già scritta e la composizione per età nel 2045/50, picco massimo dell’invecchiamento, salvo improbabili e non auspicabili grandi flussi migratori, è già nota nei minimi particolari.
La demografia e il modello di welfare su pensioni e sanità
Ciò avrà grandi riflessi sul nostro modello di welfare e in particolare su pensioni, sanità e soprattutto sostegno per la non autosufficienza, considerando che gli ultra 65enni sono oggi il 24% della popolazione (14,16 milioni) e sono destinati a diventare oltre il 35% nel 2045/2050, gli ultraottantenni, oggi quasi 4,5 milioni, gli ultranovantenni (circa 800mila) e ultra centenari oggi oltre 20mila, destinati a raddoppiare. In questa sede ci occuperemo di pensioni.
Pensioni, correggere la riforma Fornero
Per la previdenza anzitutto occorre correggere la riforma Fornero che, dopo aver introdotto il contributivo pro rata per tutti (compresi gli ex retributivi puri), ha mantenuto requisiti differenti per i misti cioè quelli che avevano maturato contributi prima del 31/12/1995, e i contributivi puri che hanno iniziato a lavorare dal 1/1/1996. In un sistema pensionistico a ripartizione, che sottende un forte patto intergenerazionale, sarebbe più giusto avere le medesime regole per le due platee mentre ora le prestazioni sono addirittura peggiorative per i contributivi puri; quindi le proposte che seguono si intendono applicabili in modo identico alle due platee.
L’aumento dell’età pensionabile
La prima cosa, sia pure molto impopolare ma necessaria per garantire la sostenibilità del sistema per i nostri figli e nipoti già gravati da un enorme e non etico debito pubblico (nel 2025 sfonderemo i 3 mila miliardi di debito e gli oltre 90 miliardi l’anno di spesa per interessi) è l’aumento delle età per il pensionamento pur con le flessibilità insite nel metodo di calcolo contributivo (calcola qui, con il «Pensionometro» del Corriere, l’età per lasciare il lavoro e l’assegno che ti spetta).
Portare l’età della pensione sociale a 70 anni
Iniziamo con le pensioni e gli assegni sociali che nel 2023 sono circa 820 mila (in continuo aumento) per un costo di 4,1 miliardi. Si tratta di soggetti che in 67 anni di vita hanno versato pochi o zero contributi e quindi zero tasse, sconosciuti al Fisco e all’Inps che però, raggiunti i 67 anni, si ricordano di essere italiani e quindi passano alla cassa senza che nessuno chieda cosa hanno fatto nella vita. L’Inps paga e basta. Non sono né inabili né invalidi civili, Inps o Inail (che in totale ammontano a 4,5 milioni, il 28,6% dei pensionati se si considerano i 110mila pensionati guerra) e quindi sarebbe utile sapere cosa hanno fatto in tutta la loro vita. Sarebbe quindi opportuno, salvo problemi di salute, portare l’età della pensione sociale a 70 anni e da subito introdurre controlli ex ante come accade in molti Paesi Europei dove, superati i 30/33 anni se non si è mai fatta una dichiarazione dei redditi si viene convocati dalle autorità fiscali che chiedono di dimostrare di cosa vivono loro e le loro famiglie. Così facendo, ridurremo certamente ex ante l’evasione fiscale e contributiva e miglioreremo occupazione e sostenibilità pensionistica. Purtroppo, anche questo governo ha fatto l’opposto tagliando le indicizzazioni dei pensionati che hanno sempre pagato tasse e contributi e aumentato molto più dell’inflazione le rendite di quelli totalmente o parzialmente assistiti e a carico della collettività che sono ben il 47% dei 16,13 milioni di pensionati.
I calcoli per la pensione di vecchiaia
L’assegno di vecchiaia presenta un flusso annuo di circa 265 mila nuovi trattamenti e uno stock di 4,85 milioni di posizioni in essere alla fine del 2023, di cui 2,4 milioni, quasi il 50%, integrati al minimo e almeno una metà beneficiarie delle oltre 1,2 milioni di maggiorazioni sociali. La maggior parte dei pensionati di vecchiaia in 67 anni di vita non ha versato contributi per raggiungere il minimo (535 euro al mese) e quindi nemmeno 20 anni di contribuzione effettiva (hanno in media almeno 5 anni di contributi figurativi per periodi di disoccupazione, malattia e così via). Anche per questi occorrerebbe adeguare l’età di pensionamento al crescere dell’aspettativa di vita, aumentare a 25 anni per tutti, misti e contributivi, il minimo contributivo e erogare la rendita solo se l’importo a calcolo della pensione è pari a 1,5 volte l’assegno sociale (703 euro al mese). Diversamente la pensione verrà erogata a 70 anni.
Invece il governo, nella scorsa legge di bilancio, ha fatto il contrario di quello che si dovrebbe fare equitativamente: ha alzato per i contributivi da 2,8 a 3 volte l’importo dell’assegno sociale per beneficiare della pensione di vecchiaia anticipata penalizzando operai e impiegati e favorendo i lavoratori ad alto reddito e eliminato il vincolo di 1,5 volte l’assegno sociale per i pensionati di vecchiaia aumentando così l’assistenzialismo e i costi a carico impropriamente del sistema. Per la vecchiaia anticipata si dovrebbe partire dai 64 anni adeguati all’aspettativa di vita con almeno 38 di contribuzione e massimo 3 anni (dovrebbe valere per tutte le tipologie di pensioni) di contribuzioni figurative, mantenendo fissi e non adeguabili all’aspettativa di vita i 42 e 10 mesi per i maschi e 1 anno in meno per le donne. La riforma delle pensioni, con l’estensione delle integrazioni anche ai contributivi e una revisione della previdenza complementare sarebbe fatta definitivamente almeno per i prossimi 10 anni. Non è una cosa da supercommissioni.
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