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(a cura di Emanuele Belotti, Politecnico di Milano)

Il crollo letale di un ballatoio nella Vela Celeste di Scampia solleva il tema del sotto-finanziamento cronico dell’edilizia pubblica. Il modo in cui il disastro è stato tematizzato dai mass media sembra alludere alle presunte specificità del “caso Scampia”, ma le sue radici vengono da lontano e sono di ordine strutturale (e riguardano sia il Nord che il Sud del paese).

L’Italia ha un sistema abitativo caratterizzato dalla prevalenza di proprietari di casa, che fa il paio con un settore dell’affitto tra i più limitati in Europa: le case popolari rappresentano meno del 4% dell’intero stock residenziale, contro una media europea che l’OECD calcola essere intorno all’8%.

Se, a seguito dell’incremento generalizzato del costo degli affitti dagli anni Novanta con l’abolizione del cosiddetto “equo-canone” (che fissava un tetto ai prezzi della locazione privata), l’offerta di edilizia pubblica si è rivelata via via insufficiente a rispondere alla pressione esercitata dalla popolazione a rischio di esclusione abitativa, il disinvestimento pubblico nel settore ha condotto anche al deterioramento fisico del patrimonio.

L’espansione storica del settore dell’edilizia pubblica ebbe inizio a partire dal secondo dopoguerra. Nel 1949 Amintore Fanfani si fece promotore di un primo piano settennale per la produzione di edilizia pubblica, a cui ne seguì un secondo nel 1956. Entrambi furono finanziati dallo Stato attraverso la “Gestione INA-Casa”. Seguirono due piani decennali, promossi nel 1963 e nel 1978 attraverso la “Gestione Casa Lavoratori” (GesCaL), in un periodo segnato da mobilitazioni epocali da parte dei movimenti operai e studenteschi. Gli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP) e i Comuni furono incaricati della produzione di edilizia pubblica in tutta Italia. Essi beneficiarono di risorse attinte a livello regionale dal Fondo GesCaL, alimentato da contributi fissi dei lavoratori e delle lavoratrici e delle parti datoriali, con un apporto addizionale da parte dello Stato. La fase espansiva dell’edilizia pubblica volse però al termine già dagli anni Ottanta, quando la produzione di case popolari, di fatto, si esaurì.

Nel decennio seguente, il Fondo GesCaL venne congelato, salvo ricorso episodico alla sua liquidità deviata su voci di spesa non attinenti all’edilizia pubblica: condizione che permane ancora oggi, con oltre 1,6 miliardi di euro (al 2023) custoditi in un conto dedicato presso Cassa Depositi Prestiti. Contestualmente, con la Legge 560/1993, il governo di Carlo Azeglio Ciampi avviava un processo di parziale dismissione del patrimonio, autorizzandone l’alienazione ove funzionale allo sviluppo del settore ma, nei fatti, aprendo alla vendita di decine di migliaia di alloggi.

Dagli anni 2000, risorse residue decrescenti sono state allocate a programmi regionali per la ristrutturazione di edifici e quartieri di edilizia pubblica, in parallelo al trasferimento dallo Stato alle Regioni delle responsabilità in tale materia. Questi programmi, che hanno stanziato le risorse a scala locale per mezzo di bandi competitivi, ovvero premianti le proposte progettuali più virtuose (e, dunque, a macchia di leopardo anziché in maniera generalizzata), tuttavia, hanno avuto un’efficacia molto parziale.

La necessità di sopperire all’assenza di un canale di finanziamento strutturale per l’edilizia pubblica ha spinto le Regioni ad aziendalizzare gli IACP, attendendosi che potessero autosostentarsi economicamente tramite i canoni di affitto delle case popolari, che sono però troppo esigui per ripagare i costi di gestione. Difficoltà di budget degli IACP e vincoli di bilancio imposti ai Comuni hanno così accelerato la vendita di ulteriori porzioni di stock per esigenze di cassa.

Case popolari divenute inutilizzabili, sovente abitate informalmente, edifici fatiscenti (anche per la carente qualità edilizia di complessi concepiti nella strutturale scarsità di risorse) ed “abbandono istituzionale” dei quartieri pubblici sono l’esito di quattro decenni di disimpegno politico. Ciò è avvenuto malgrado la crescente pressione sociale sul settore, con decine di migliaia di nuclei familiari in attesa di assegnazione o residenti in condomini necessitanti interventi di radicale ristrutturazione.

Gli immobili di edilizia pubblica pericolanti o con cornicioni e intonaci a rischio caduta si contano in ogni regione; per di più, chi vive nelle case popolari lamenta carenze manutentive ordinarie. Si tratta, dunque, di un tema di incolumità fisica dell’inquilinato, ma anche di assicurare ai residenti la qualità del servizio a cui hanno diritto, e per cui pagano. Il rischio delle narrazioni che perpetuano l’immagine dei quartieri di edilizia pubblica come luoghi degradati è la reiterazione di un certo “fatalismo implicito” sull’inevitabilità delle modeste condizioni abitative nell’edilizia pubblica: perché mai un condominio pubblico dovrebbe funzionare peggio di uno privato?

Il disastro di Scampia palesa l’urgenza di un canale di finanziamento ordinario e costante per l’edilizia pubblica, adeguato alla ristrutturazione del patrimonio e alla produzione di nuovo stock, nonché di trasferimenti che supportino l’inquilinato nel pagamento dell’affitto in maniera decisiva (non nella forma “minima” che caratterizza oggi il fondo nazionale per il sostegno alla locazione), riducendo i livelli di morosità e assicurando la sostenibilità dell’offerta di affitto sociale di ex IACP, Comuni e privato sociale. In gioco non sono “solo” sicurezza e dignità di chi abita le case popolari, ma la capacità di queste ultime di farsi strumento di giustizia socio-spaziale.

 

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