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La legge di Bilancio che il governo deve predisporre in autunno si preannuncia complessa. I margini d’azione sono ristretti: tornano in vigore le regole di bilancio europee in una versione riformata e, poi, bisogna far fronte a un debito che sfiora i tremila miliardi. Come è noto, a questa dinamica ha significativamente contribuito il Bonus 110 per cento, senza alcun dubbio la più scellerata delle misure degli ultimi decenni. Molti esponenti politici continuano a sostenere che, nel bel mezzo della pandemia, una simile agevolazione era necessaria. Nessuno, però, si prende la responsabilità del costo che – ad oggi – ammonta a circa 170/180 miliardi. Anche perché un colpevole sembrerebbe essere stato trovato: si chiama Ragioniere Generale dello Stato (Rgs), colui che ha il compito di fare i conti. E, nel caso specifico, i conti si sono rivelati sbagliati visto che la stima della Rgs si fermava a soli trentacinque miliardi.

C’è da chiedersi come sia stato commesso l’errore. O forse sarebbe meglio chiedersi se – davvero – era possibile stimare correttamente il costo di una siffatta misura. In effetti, se si analizza il modo in cui il bonus è stato disegnato ci si rende conto che l’impresa non era affatto semplice. La versione originaria, quella voluta dal governo Conte 2, quindi con una maggioranza composta dal Movimento 5 Stelle, dal Partito Democratico (di cui una parte diventerà Italia Viva) e da Liberi e Uguali, prevedeva che la detrazione potesse essere convertita in un credito d’imposta cedibile in maniera illimitata. Nello mente dei pentastellati, i veri “papà” del 110 per cento, l’agevolazione edilizia doveva diventare una sorta di valuta parallela con cui pagare le tasse. Alla base di questa impostazione, vi era la convinzione per cui la moneta potesse essere creata e stampata senza limiti. Attenzione, però, non dallo Stato o da una banca centrale, bensì dai singoli cittadini che decidono come e quando farla circolare.

A questo proposito, rimane ancora il dubbio sul perché la Banca d’Italia non abbia denunciato questo forzatura, ma tant’è. È chiaro che con questo schema, il bonus diventa un bene pubblico infinito come fosse l’acqua alla fonte: non si paga, è inesauribile, rappresenta, insomma, un meraviglioso pasto gratis. Effettuare stime precise non era, pertanto, facile. Eppure, diversi analisti e commentatori contestano l’incompetenza della Ragioneria e reclamano un cambio di passo.

È cronaca di questi giorni di un possibile trasferimento del Ragioniere generale verso la presidenza di Fincantieri. Nel caso, sarebbe utile capire i dettagli di ciò che è realmente accaduto e, soprattutto, quali sono le ragioni per cui un servitore dello Stato definito «incompetente» dovrebbe andare ad occupare un’altra posizione pubblica con uno stipendio triplicato: non era questo il governo del merito? In presenza di un conto così salato che – per inciso – viene pagato in gran parte dalle persone meno abbienti –, il metodo da seguire dovrebbe essere un altro: i tecnici, se ritenuti colpevoli, dovrebbero essere mandati a casa. Altrimenti, le responsabilità vanno cercate altrove.

E qui arriviamo al ruolo della politica. Perché una cosa è certa: nessuna delle forze politiche può rivendicare la propria innocenza rispetto a quello che è stato il banchetto più insensato e costoso della storia economica italiana degli ultimi tempi. Come si è detto, il governo Conte 2 introduce il super bonus. Ma non solo. Spiega che è «gratis», ossia che si rifinanzia da solo: una magia! La misura è temporanea eppure, l’allora ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, la proroga nella legge di Bilancio 2020. Lo stesso farà l’esecutivo successivo, guidato da Mario Draghi sebbene in presenza di numeri diventati (molto) preoccupanti. E, infatti, lo stesso Draghi si dice contrario al bonus. Lo definisce poco efficace. «L’edilizia si è giovata di questo strumento ma non bisogna pensare che senza non andrebbe avanti», spiega durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno nel dicembre del 2021. E, poi, crea delle distorsioni: «I prezzi di tutto ciò che serve per le ristrutturazioni sono aumentati, inclusi i materiali per l’efficientamento energetico» osserva, concludendo che «il risultato è che oggi questo efficientamento costa più di prima del bonus». Tradotto: il risparmio in termini di riduzione delle emissioni non è tale da assorbire l’aumento dei prezzi. La posizione dell’allora Ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco, è – se possibile – ancora più netta: «Il bonus rappresenta una truffa tra le più grandi che la Repubblica abbia mai visto». In buona sostanza, il bonus è giudicato costoso, inefficace, distorsivo, iniquo e, soprattutto a rischio di imbrogli. A fronte di una presa di posizione così drastica, ci si poteva aspettare una disamina corretta e impietosa sui costi futuri della misura e, quantomeno, una riduzione dell’aliquota sotto il 100 per cento. La misura viene, invece, prorogata. Diverse volte. Le principali sono quella inclusa nella Legge di Bilancio predisposta nel dicembre del 2021 – che prevede una proroga del 110 per cento a tutto il 2023 e, poi, fino al 31 dicembre del 2025, sebbene con alcune modifiche sulle aliquote, la platea dei beneficiari e le scadenze; e quella nel maggio del 2022.

La scelta della proroga sorprende. È decisa in una fase di ripresa economica e di inflazione crescente. Ma, soprattutto, i segni che si stava formando una (grande) bolla speculativa nel settore delle costruzioni c’erano tutti, visto che i costi a carico dello Stato erano triplicati in soli tre mesi, passando dai 6 miliardi di agosto ai 18 di dicembre. Vale pena sottolineare che in quel momento a disposizione vi erano dati, non stime elaborate dalla Ragioneria. «L’estensione» spiegherà Draghi «è stata decisa dal Parlamento, il governo era riluttante». Altre volte, tuttavia, la riluttanza era stata trasformata in azione: l’esecutivo di unità nazionale è quello che nell’ultimo decennio, complice anche la situazione pandemica, ha posto il più elevato numero medio mensile di questioni di fiducia. Per il Bonus 110 per cento, la battaglia non fu fatta. L’ostacolo, considerato insuperabile, era l’opposizione dei Cinque Stelle, che ritenevano – e ritengono ancora oggi –, il sussidio una misura identitaria. Toccherà al governo attuale mettere mano al bonus. Nell’ottobre del 2022, quando si insedia la nuova maggioranza di centrodestra, l’agevolazione è in vigore da due anni e il conto per lo Stato è già salito a circa settanta miliardi. Così, nel novembre del 2022 vengono sanate due delle principali distorsioni presenti nello schema originario. In primo luogo, lo sconto smette di essere superiore al costo – ed era ora: per le spese sostenute nell’anno 2023, l’aliquota scende al novanta per cento. In secondo luogo, l’agevolazione diventa selettiva e concessa solo a chi ha una soglia di reddito pari a quindicimila euro l’anno e che aumenta in base al quoziente familiare. Solo due mesi dopo, arriva un’ulteriore modifica: con l’eccezione di specifiche deroghe – troppe e, infatti, il governo farà autocratica spiegando che sono state lasciate numerose scappatoie –, viene eliminata la cessione del credito.

Giorgia Meloni spiega la sua scelta ripetendo ciò che Mario Draghi aveva illustrato infinite volte, ossia che il 110 per cento è regressivo, inefficace, disegnato male e a rischio frodi, ma aggiunge un ulteriore elemento, quello dei costi. Lo fa partendo dall’assunto che «parlare di gratuità con i soldi dei contribuenti è un concetto un po’ bizzarro». A fronte di dati incontrovertibili e drammatici, quella narrazione non può più stare in piedi. Resta, però, il conto saltassimo. A pagarlo sono i cittadini. E, forse, i tecnici. Non chi ha governato in questi anni prorogando la norma per ragioni di consenso di partito o personali

 

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