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Milano, 20 agosto 2024 – “L’ammonimento è una prima spia che si accende per rendere una persona consapevole di dover cambiare condotta”. Lo spiega Paolo Giulini, presidente del Cipm, Centro italiano per la promozione e la mediazione, criminologo clinico e docente dell’Università Cattolica.

Nel polo che dirige, da 7 anni si concretizza il “Protocollo Zeus“ contro la violenza di genere, frutto dell’alleanza con la polizia di Stato, in cui una squadra di criminologi e psicologi incontra stalker e violenti (e chi è a un passo dal diventarlo) per aiutarli a cambiare rotta. Una collaborazione attiva “tra noi, la Questura di Milano e una trentina di altre Questure in Italia”, aggiunge. “I Cipm sono presenti in 11 regioni”.

Gli ammonimenti del questore di Milano, dal 1° giugno al 15 agosto, sono stati 75. Aumentati del 34% rispetto al 2023. Come legge questo dato?

“Io penso che sia un bene il fatto che si sia deciso di ‘ammonire’: prima si interviene, più alta è la possibilità che un determinato comportamento non sfoci in violenza. Gli ammoniti vengono invitati a seguire un percorso al Cipm che ha proprio questo scopo. Ma non ci occupiamo solo di loro: seguiamo persone condannate, con pena sospesa, per le quali il trattamento è obbligatorio, e anche chi è in carcere o è sottoposto a misure alternative per maltrattamenti o violenza sessuale o domestica”.

Nel caso di trattamento obbligatorio, le persone sono meno inclini a farsi aiutare?

“Bisogna innanzitutto considerare che queste persone hanno una vulnerabilità, che può essere frutto di fattori culturali (la cultura machista) o di esperienze personali. E noi sappiamo che questa vulnerabilità va trattata. Non trattiamo mai le persone da ‘malate’. Quasi sempre notiamo una fatica iniziale ad accettare che il proprio comportamento abbia causato dei danni, ma anche ad accettare la propria fragilità. Il trattamento, quindi, innanzitutto è volto a privare queste persone dei loro meccanismi difensivi poco congeniali a un’evoluzione. L’ammonito segue un percorso individuale, attraverso colloqui, guidato verso la consapevolezza. Con gli altri, il sistema più efficace sono gli incontri di gruppo”.

Perché il gruppo è la situazione ottimale?

“Perché gli effetti della comunicazione tra chi ha uno stesso vissuto consentono di raggiungere prima lo scopo. Nelle parole, nelle dinamiche che si ripetono, ci si rispecchia. E sentire un proprio ‘pari’ che ha cambiato comportamento ha un valore enorme. Non è ‘l’insegnamento di un operatore’ ma è l’esperienza di un altro in cui ci si riconosce”.

Quanti gruppi gestite?

“Tra Milano, Pavia, Monza e Bollate, 47 gruppi a settimana. La maggioranza nelle carceri. Di questi, 11 sono esterni, di cui 5 finanziati da Regione Lombardia nell’ambito del ‘Progetto uomo’ di Ats Città Metropolitana e 6 al presidio criminologico territoriale del Settore sicurezza del Comune di Milano. Ma il numero è destinato a crescere: a breve ce ne saranno altri 5”.

È mai capitato che qualcuno si presentasse autonomamente, senza aver ricevuto misure?

“Sì: un uomo si è presentato da noi dopo un colloquio a un consultorio, perché aveva avuto problemi con la compagna. Lo avevamo accolto nell’appartamento ‘Su un altro piano’, in zona Lorenteggio, realizzato da noi insieme ad altri partner tra cui La Cordata e il sostegno della Fondazione Comunità Milano. In questo luogo, con cinque posti letto, gli autori di maltrattamenti contro le donne venivano aiutati e seguiti da educatori e criminologi. L’esperienza si è conclusa, esaurito il finanziamento. Sarebbe bello poterla replicare magari con l’aiuto di altri enti. Chissà”.

 

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