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Nelle speranze di tutti – politica, associazioni, cittadini – il decreto del governo sulle aree idonee per le rinnovabili avrebbe dovuto mettere fine una volta per tutte alla «sindrome Nimby». L’acronimo sta per «Not in my backyard» («Non nel mio cortile») e viene utilizzato quando una comunità locale protesta contro opere di interesse pubblico realizzate nella propria area di residenza. Almeno a livello teorico, tutti (o quasi) sembrano essere d’accordo sulla necessità di accelerare l’installazione di pannelli solari e pale eoliche. Eppure, quando l’area scelta per uno di questi progetti si trova a due passi da casa c’è chi storce il naso e si oppone. A volte per motivi più che ragionevoli, per esempio lo scarso coinvolgimento da parte delle istituzioni o delle aziende promotrici dei progetti, altre volte perché si vuole semplicemente anteporre i propri interessi a quelli collettivi.

Obiettivo mancato

C’è un elemento però che ha contribuito a favorire battaglie mediatiche e giudiziarie contro alcuni impianti di rinnovabili: fino a pochi mesi fa, l’Italia non aveva mai approvato un decreto sulle aree idonee, ossia un documento che stabilisse criteri e linee guida su come identificare i luoghi più adatti a ospitare pale eoliche e pannelli fotovoltaici. A giugno 2024, il decreto è finalmente stato approvato e il 2 luglio è entrato in vigore. Peccato che il suo obiettivo principale, ossia fare chiarezza sulle aree da destinare o meno alle rinnovabili e ridurre al minimo i dissidi tra governo e amministrazioni locali, è stato centrato solo a metà. Il provvedimento stabilisce infatti alcuni criteri generali, ma affida alle Regioni il compito di stabilire in ultima istanza quali aree siano da definire idonee e quali no. Il risultato è che le resistenze locali ai nuovi parchi eolici e solari non si sono fermate, anzi. In Val di Cornia, nella Bassa Maremma, cittadini e agricoltori sono sul piede di guerra e chiedono una moratoria ai nuovi progetti di rinnovabili. Mentre in Sardegna, dove una moratoria di 18 mesi già è stata approvata su tutto il territorio regionale, è partita una raccolta firme per una proposta di legge di iniziativa popolare «contro le speculazioni nel settore delle rinnovabili».

Una protesta nelle campagne di Codrongianus (Sassari) contro l’installazione di impianti eolici e fotovoltaici, 15 giugno 2024 (ANSA/Stefano Ambu)

La strana alleanza tra ambientalisti e industria

Le linee guida stabilite dal governo prevedono criteri piuttosto generici, come il suggerimento di dare priorità a superfici edificate: capannoni industriali, parcheggi e «aree a destinazione industriale, artigianale, per servizi e logistica». L’aspetto curioso è che il decreto aree idonee è stato criticato con la stessa durezza sia dalle principali associazioni ambientaliste che dalle aziende del settore. Le prime accusano il governo di cedere alle campagne di disinformazione che cercano di rallentare la transizione energetica, le seconde lamentano scarsa chiarezza normativa e incertezza per chi investe nelle rinnovabili. «Succede poche volte che siamo in sintonia con l’industria, ma questa volta è successo», osserva a Open Chiara Campione, responsabile dell’unità Clima per Greenpeace Italia. Secondo l’associazione, il decreto aree idonee del governo Meloni «nasce con l’obiettivo di espandere le energie rinnovabili ma di fatto crea più ostacoli burocratici».

Uno dei punti più contestati è la decisione di delegare la scelta delle aree idonee alle regioni, che sono più suscettibili alle resistenze locali e rischiano di alimentare, e non ridurre, i fenomeni di Nimby. «Manca una strategia coordinata a livello nazionale. Questo decreto rischia di essere un piccolo banco di prova di ciò che il governo vuole fare con l’autonomia differenziata», spiega Campione. L’aspetto del provvedimento più criticato dall’industria riguarda invece le cosiddette «fasce di rispetto», ossia la distanza minima che deve separare un impianto di rinnovabili e un bene o un luogo sottoposto a vincolo di tutela. Il limite massimo fissato dal governo per queste fasce di rispetto è di 7 chilometri. «È il colpo di grazia allo sviluppo degli impianti rinnovabili», ha attaccato senza giri di parole Agostino Re Rebaudengo, presidente di Elettricità Futura, il ramo di Confindustria che raduna le imprese elettriche italiane. «Se le regioni – ha aggiunto – applicassero in modo restrittivo la distanza dei 7 chilometri dai beni tutelati per i nuovi progetti che da oggi in poi verranno presentati, la quasi totalità del territorio nazionale sarebbe non idoneo alle rinnovabili».

Come si scelgono le aree idonee

Ora che le linee guida del governo sono state definite, è alle amministrazioni regionali che viene affidato il compito di classificare il proprio territorio in base a quattro tipologie:

  • Aree idonee: zone con iter accelerato e agevolato per la costruzione di impianti rinnovabili
  • Aree non idonee: zone con caratteristiche incompatibili con l’installazione di specifiche tipologie di impianti
  • Aree ordinarie: zone in cui si applicano i regimi autorizzativi ordinari
  • Aree vietate: zone in cui è vietata l’installazione di impianti fotovoltaici a terra (il cosiddetto «agrivoltaico»)

Alle Regioni vengono dati 180 giorni di tempo, a partire dalla pubblicazione del decreto in Gazzetta Ufficiale, per classificare le aree del proprio territorio in base alle quattro categorie. In caso di mancata adozione della legge, il ministero dell’Ambiente si riserva di procedere con «le opportune iniziative ai fini dell’esercizio dei poteri sostitutivi».

Il caso della Sardegna

Tra le prime Regioni a rimboccarsi le maniche per arrivare una mappatura delle aree idonee c’è la Sardegna, finita al centro delle polemiche per la decisione della governatrice Alessandra Todde di approvare una moratoria di 18 mesi sui nuovi progetti di rinnovabili. Secondo la presidente di Regione, si tratta di un provvedimento necessario per combattere la speculazione delle aziende energetiche. Ma imprese del settore e associazioni ambientaliste non sono d’accordo: «La Sardegna, una regione che dipende ancora in larga parte dal carbone, pone una moratoria sulle rinnovabili e poche settimane più tardi si trova costretta a chiedere lo stato di emergenza per la siccità, manifestazione diretta della crisi climatica. È un paradosso», osserva Chiara Campione. Ad agosto, poco dopo l’entrata in vigore del decreto, gli uffici tecnici della Regione Sardegna si sono messi al lavoro per la mappatura delle aree idonee, così da fare ordine una volta per tutte su quali zone possono essere effettivamente destinate alla produzione di energia da fonti rinnovabili e quali no. «Faremo il nostro lavoro fino in fondo e non permetteremo, a differenza di chi ci ha preceduto negli anni, che la Sardegna venga ancora calpestata e svenduta», ha tuonato Todde nei giorni scorsi.

Alessandra Todde, presidente della Regione Sardegna (ANSA)

La corsa alle rinnovabili, regione per regione

Oltre a mappare le aree idonee, l’ultimo decreto del governo risponde anche a un’altra esigenza: suddividere tra le regioni quegli 80 gigawatt di potenza rinnovabile che l’Italia punta a installare entro il 2030. In gergo tecnico si chiama burden sharing, ossia condivisione dell’onere. Nel provvedimento redatto dal ministero dell’Ambiente è la Sicilia la regione chiamata a trainare la corsa dell’Italia verso le rinnovabili. L’obiettivo fissato per la regione amministrata da Renato Schifani è di 10,4 gigawatt di potenza aggiuntiva entro la fine del decennio. Seguono sul podio la Lombardia (8,7 GW) e la Puglia (7,3 GW). In generale, è soprattutto nelle regioni del Sud e nelle Isole che si concentreranno i nuovi impianti di eolico e solare, mentre il contributo minore alla transizione verso un’energia più pulita arriverà dalla Valle d’Aosta, che ospita un territorio meno adatto alle rinnovabili.

Gli obiettivi sulla produzione di energia da fonti rinnovabili (in MW), regione per regione

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