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Fashion: sarà rivoluzione o crisi per le piccole imprese? #finsubito prestito immediato – richiedi informazioni –


L’Unione europea ha dichiarato guerra al fast fashion, cioè il sistema moda caratterizzato da rapidità nella progettazione, realizzazione, immissione sul mercato, consumo e infine distruzione di prodotti a basso costo e spesso di bassa qualità. Inquinano troppo. Non sono più sostenibili. Un settore di mercato, che interessa 160 mila imprese e la gran parte dei consumatori europei, deve essere ripensato. E comunque è tutto il sistema moda che sembra esser finito sotto osservazione. Da una parte la direttiva europea sulla Due Diligence che tende a spingere tutta la filiera della moda verso un percorso di maggiore sostenibilità ambientale, dall’altra tutta una serie piuttosto complessa di regolamentazioni, quasi sempre di matrice eurounitaria, che è da poco entrata in vigore o lo farà entro pochi mesi, che tende a introdurre i concetti (ed i vincoli) di ecoprogettazione, divieto di distruzione dell’invenduto (che quindi dovrà essere destinato obbligatoriamente al recupero), raccolta differenziata, limiti all’esportazione di prodotti usati. Ma anche di obbligo per i produttori tessili di ritirare i beni usati, come già avviene per i Raee, ossia i rifiuti elettrici ed elettronici.

Una serie di normative piuttosto stringenti che vanno ad impattare su un settore che nell’Unione europea produce ogni anno 5,8 milioni di tonnellate di rifiuti e che sembra caratterizzato da dinamiche di crescita che lo rendono sempre più un pericolo per l’ambiente, se è vero che nei primi 15 anni di questo secolo la produzione dei beni tessili è addirittura raddoppiata, con previsioni di incrementi ancora maggiori.

E non è un caso se la direttiva sulla Due Diligence, che interessa tutti i settori produttivi, nel settore moda sembra destinata a trovare un’applicazione sempre più rigida, anche per gli effetti reputazionali che derivano dal suo mancato rispetto che, in questo settore, producono conseguenze molto pesanti. E che finiscono per vincolare non solo le aziende di maggiori dimensioni, ma tutta la filiera produttiva ad esse collegata, con un effetto a cascata anche su imprese di medie e piccole dimensioni che sono fornitrici dei grandi marchi ma che devono comunque garantire rigidi standard ambientali.

Tutto bene, tutto bello, tutto giusto. Salvo un piccolo dettaglio: siamo sicuri che questo infinito appesantimento burocratico che si sta abbattendo su tutta la filiera produttiva riuscirà a renderla compliance dal punto di vista ambientale senza finire per strozzare molte delle imprese coinvolte?

Finché si tratta dei grandi marchi della moda, che riescono ad applicare ricarichi vertiginosi sui loro prodotti, non è difficile immaginare la possibilità del rispetto di regole anche molto dettagliate e stringenti, ma quando entriamo nel campo di piccoli produttori per conto terzi che già lavorano con margini ristretti, non è garantito che abbiano la possibilità di sopportare ulteriori carichi burocratici per fornire le garanzie richieste dai marchi più blasonati. Potrebbero, semplicemente, restarne schiacciati. Chissà se a Bruxelles ci hanno pensato.

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