Omicidio Moro: condannato in via definitiva per il delitto del 2010 il collaboratore di giustizia Andrea Pradissitto
Andrea Pradissito, il 34enne di Latina, ex affiliato al clan Ciarelli, in quanto marito della figlia del boss Ferdinando “Furt” Ciarelli, è stato condannato in via definitiva a 7 anni e 6 mesi di reclusione per l’omicidio di Massimiliano Moro. L’omicidio realizzato col metodo mafioso ha finora riconosciuto, in primo grado, davanti alla Corte d’Assise del Tribunale di Latina, altri due colpevoli: Simone Grenga come esecutore materiale e Ferdinando “Macù” Ciarelli, il figlio del capo famiglia Carmine “Porchettone” Ciarelli, come mandante.
Come noto, secondo la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, che ha coordinato le indagini della Squadra Mobile di Latina, basate anche sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Renato Pugliese, Agostino Riccardo e, sopratutto, lo stesso Andrea Pradissitto, reo confesso di aver fatto parte del commando che, la sera del 25 gennaio 2010, si recò il Largo Cesti, nel quartiere Q5, a Latina, per fare fuori Massimiliano Moro, considerato il mandate dell’attentato a colpi d’arma da fuoco contro Carmine Ciarelli. Quest’ultimo, considerato il leader del sodalizio rom dei Ciarelli, fu attinto dai colpi di fronte al bar Sicuranza nel quartiere roccaforte della famiglia, Pantanaccio.
Ad aprile, nel corso dell’udienza del processo sull’omicidio Moro che si teneva presso il Tribunale di Latjna, è stato reso noto che il collaboratore di giustizia Andrea Pradissitto, interrogato come testimone imputato per reato connesso (anche lui fu destinatario della prima ordinanza di custodia cautelare in carcere per l’omicidio di Moro emessa a febbraio 2021), era stato condannato per l’omicidio volontario di Massimiliano Moro, con l’aggravante del metodo mafioso, alla pena di nove anni di reclusione.
Era stato il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Roma, Claudio Carini, a emettere la condanna nei confronti del genero del boss Ferdinando “Furt” Ciarelli. Per Pradissitto, giudicato col rito abbreviato, il Pubblico Ministero Luigia Spinelli aveva chiesto la pena di 6 anni. Al 33enne erano state concesse le attenuanti della collaborazione con lo Stato, mentre il Pm aveva chiesto anche quelle generiche.
La condanna definitiva di Pradissitto per l’omicidio Moro – che diede il via alla cosiddetta guerra criminale del 2010 tra i clan riuniti dei Ciarelli e dei Di Silvio (entrambi i rami, quello di Campo Boario e quello del Gionchetto) e la criminalità non di origine rom (Maricca, Marchetto, Nardone eccetera) – è emersa oggi, 28 ottobre, durante la testimonianza del collaboratore di giustizia nel processo Reset che contesta al clan Travali/Di Silvio l’associazione mafiosa. È stato il medesimo Pradissitto, interrogato dai pubblici ministeri della DDA di Roma, Luigia Spinelli e Francesco Gualtieri, a rendere noto di aver rimediato la condanna definitiva per l’omicidio Moro a sette anni e mezzo.
La condanna è diventata irrevocabile perché Pradissitto – le cui dichiarazioni fecero aprire una seconda inchiesta a luglio 2021, dopo i primi arresti del febbraio 2021 – ha rinunciato ad appellarsi alla condanna di primo grado e, in ragione della Legge Cartabia, ha ottenuto lo sconto di pena di un anno e mezzo: da 9 anni a 7 anni e 6 mesi.
Il prossimo 19 dicembre, invece, dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, si svolgerà la prima tappa del processo di secondo grado per i due condannati e i due assolti che hanno scelto, in primo grado, il rito ordinario. I pubblici ministeri della DDA di Roma, Luigia Spinelli e Francesco Gualtieri, hanno impugnato le assoluzioni di Antoniogiorgio Ciarelli e Ferdinando Di Silvio detto “Pupetto”, oltreché ad impugnare le condanne a 20 anni di reclusione rimediate in primo grado da Simone Grenga e Ferdinando Ciarelli detto Macù.
I magistrati antimafia chiedono che ai due condannati venga riconosciuta la premeditazione dell’omicidio, esclusa dal Tribunale di Latina in primo grado, che comporterebbe la condanna all’ergastolo. Ovviamente, si chiede che anche i due assolti vengano condannati a 30 anni di reclusione a testa, con il riconoscimento delle attenuanti generiche, così come richiesto in primo grado.
Macù – difeso dall’avvocato Italo Montini – che per l’accusa è il mandante dell’omicidio, e Grenga – difeso dall’avvocato Marco Nardecchia -, individuato come l’esecutore materiale dei due colpi di pistola che stesero Moro, hanno rimediato anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Per loro è stata esclusa l’aggravante della premeditazione, ma è valida quella di aver agevolato l’associazione di stampo mafioso dei Ciarelli/Di Silvio.
Le dichiarazioni di quest’ultimo hanno fatto sì che la Direzione Distrettuale Antimafia di Roma e la Squadra Mobile di Latina, che hanno portato avanti le indagini, sulla scorta anche delle dichiarazioni dei pentiti Agostino Riccardo e Renato Pugliese, cambiasse quadro, escludendo dai responsabili “Furt” Ciarelli e includendo “Pupetto” Di Silvio e Antoniogiorgio Ciarelli.
Ad ogni modo, l’uccisione con due colpi di pistola alla testa di Massimiliano Moro, esponente di peso della criminalità pontina a cavallo trai novanta e i duemila, non fu solo una vendetta, ma un modo per l’alleanza tra i clan rom Ciarelli e Di Silvio di affermare la loro forza mafiosa sul territorio nell’ambito della guerra criminale del 2010: “Chiunque osa attentare alla vita di un Ciarelli e un Di Silvio – aveva detto in aula la pubblica accusa – verrà giustiziato“.
L’accusa per i cinque imputati è quella di aver compiuto un omicidio volontario e premeditato contro colui che era stato individuato come il mandante dei setti colpi di pistola sparati all’indirizzo del numero uno del clan Ciarelli, il “reuccio del Pantanaccio”, Carmine Ciarelli detto “Porchettone” o “Maiale”, o “Titti”. Il capo clan si salvò quasi clamorosamente, dopo un delicato intervento chirurgico eseguito al Santa Maria Goretti di Latina, ma, secondo la ricostruzione dell’accusa, fu proprio nel nosocomio pontino che si consumò il progetto di uccidere Massimiliano Moro, il quale, invece, si presentò in ospedale, abbracciò il padre di “Porchettone”, Antonio Ciarelli, e promise di vendicare l’attentato del figlio. “Si giocò, forse per la prima volta in vita sua, una carta sbagliata“, ha spiegato nel corso della sua reqisitoria il Pm Gualtieri.
Moro, infatti, avrebbe voluto far credere di non essere stato lui ad armare la mano dell’esecutore materiale degli spari a Carmine Ciarelli, il cui autore non è stato mai accertato. Il processo all’autista di Moro, Gianfranco Fiori, ascoltato nel corso delle udienza di questo processo, è finito con una assoluzione.
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