Un ricordo che parte dalla mostra allestita al Teatro San Ferdinando nel ’79
Cade oggi il quarantesimo anniversario della morte di Eduardo De Filippo, spentosi alle undici di sera del 31 ottobre dell’84, per un blocco renale, nella clinica romana Villa Stuart. E non a caso, come spiegherò fra breve, ho esposto con tanto puntiglio i particolari di quella morte.
Tutti, a Napoli, si sentono in obbligo e all’altezza di parlare di Eduardo, allo stesso modo in cui si sentono in obbligo e all’altezza di rivolgersi a San Gennaro. E poi capita quel ch’è capitato lunedì scorso. Su un noto quotidiano un altrettanto noto (e di gran vaglia, preciso) scrittore napoletano ha attribuito a Toni Servillo la messinscena di «Mia famiglia» e a Luca Cupiello il nome di battesimo Pasquale, evidentemente confondendosi, rispettivamente, con «Sabato, domenica e lunedì» e con il Lojacono di «Questi fantasmi!». E nessuno dei redattori di quel giornale ha rilevato e corretto gli errori commessi dallo scrittore.
Dunque, al contrario di tanti soloni improvvisati e maldestri, io – che pure credo di aver avuto con Eduardo un rapporto stretto e significativo come quello di pochissimi altri – commenterò l’anniversario in questione non sulla base di opinioni personali, ma riferendomi (ecco la spiegazione del puntiglio di cui sopra) a dati di fatto incontrovertibili: per ciò che attiene alla diffusione dell’opera del Nostro i documenti della mostra «Eduardo nel mondo», allestita al San Ferdinando, nel 1979, in occasione del ritorno a Napoli del grande autore e attore, e per quanto riguarda gl’intenti e i contenuti della sua opera le dichiarazioni che lo stesso Eduardo mi fece a margine dell’inaugurazione di quella mostra.
Un biglietto da 500 «amlire» attraversato dalla scritta in ceco: «Filippo: Neapol mesto milionu». Anche se nell’ingrandimento fotografico era saltata la particella «De», si trattava inequivocabilmente del manifesto della «Napoli milionaria!» allestita a Praga nel ‘57. E accanto quello dell’allestimento di «Questi fantasmi!» a Tokyo, con un omino che era la divertente sintesi di un giapponese e di un napoletano secondo l’immagine che dei napoletani hanno i giapponesi. E ancora, la copertina disegnata da Beltrame per la «Domenica del Corriere»: Titina che recita davanti a Pio XII la famosa preghiera alla Vergine di «Filumena Marturano». E poi le foto di Eduardo con Thornton Wilder, Eduardo con Laurence Olivier e Joan Plowright, Eduardo con sir Peter Daubeny, l’ideatore del Festival World Theatre Season. E il pannello con le foto delle più prestigiose interpreti di «Filumena Marturano»: Titina insieme con Valentine Tessier, Käthe Dorsch, la Magda Janssens che, per festeggiare i suoi cinquant’anni di teatro, diede quella commedia in ben cento città di tutta l’Olanda.
La mostra era nata col nascere dell’idea di dedicare appunto a Eduardo la seconda Rassegna Internazionale di Teatro Popolare organizzata dal romano Teatro Tenda di Carlo Molfese. E cresceva continuamente, perché continuamente cresceva nel mondo la presenza di Eduardo drammaturgo. Tanto per intenderci, all’epoca erano almeno una ventina le edizioni di «Filumena Marturano» allestite, fra l’altro, addirittura a Malta e in Corea. E sette erano le commedie di Eduardo che si rappresentavano nella sola Unione Sovietica, da «Napoli milionaria!» a «La grande magia». Il sindaco Valenzi ricordò che quando si recò con una delegazione di veterani del PCI a Voroscilovgrad, la capitale dell’Ucraina, apprese che negli ultimi dodici mesi erano state date nel teatro di quella città qualcosa come sessanta repliche di lavori eduardiani vari.
Del resto, a scorrere la cronologia delle rappresentazioni straniere di commedie di Eduardo compilata da Isabella De Filippo per il periodo 1947-’77, non si sapeva se fossero più numerose le sorprese o le conferme. Per citare appena il caso di «Sabato, domenica e lunedì», scoprimmo che ne erano state allestite sedici edizioni in almeno quindici città, da Londra e Mosca a Malmoe e Berlino, da New York e Chicago a Lubiana e Copenaghen, da Oslo e Amsterdam fino a Tampere, in Finlandia, e Napao, in Sud Africa.
Vale, al riguardo, quanto il grande Gennarino Palumbo, ventitré anni con Eduardo, mi raccontò circa la «prima» di «Napoli milionaria!» a Londra, nel ‘71: «Dal palcoscenico, a un certo punto, vedemmo che in sala gli spettatori si toglievano le cuffie della traduzione simultanea. Eppure gli applausi continuarono ad arrivare, negli stessi, identici momenti in cui arrivavano a Napoli. Ma insomma, eravamo a Londra o a Napoli?». Probabilmente, e anzi senza dubbio, era Napoli che s’era spostata a Londra. Ma sentiamo Eduardo.
Quando gli chiesi che impressioni provasse dinanzi a tante, e così cariche di memorie, testimonianze della sua presenza nel mondo, mi rispose, ovviamente, che per lui non c’erano sorpresa o emozione: quella vicenda, il lungo cammino che le sue commedie percorrevano su tutte le strade del mondo, lui la viveva ormai da venticinque anni. E circa il fatto che quelle fotografie e quei manifesti fossero esposti per la prima volta a Napoli, il commento fu altrettanto ovvio: «È la prova anche per i napoletani di quanto sia ascoltata nel mondo la voce di Napoli, quella vera».
Quindi Eduardo s’abbandonò ai ricordi. E fu una grande, commovente lezione di vita e di arte, che coinvolse me e quanti assistevano a quell’incontro fra me e Eduardo in un gioco sottile tramato insieme d’ironia e di amare verità. Eduardo parlò della serietà e della competenza con cui nell’Unione Sovietica si lavorava per il teatro e nel teatro: Cerkasov, pur essendo il grande attore che era, morì senza aver potuto interpretare quel ruolo di Amleto che aveva sognato per tutta la vita. «Sei troppo alto per fare Amleto», gli dicevano. E subito dopo Eduardo trovò il modo di collegare l’episodio alla nostra realtà, quella del teatro a Napoli: lui, Eduardo, ripeté a Ferdinando Clemente, sindaco democristiano, che non poteva fare Amleto (e voleva dire, è chiaro, che Clemente non poteva fare il presidente dello Stabile).
Due ore rimase Eduardo in compagnia di quanti vennero a salutarlo. Firmò centinaia di dediche sulle riproduzioni del suo autoritratto e se ne andò solo quando arrivò l’ora di salire in palcoscenico a mettere a punto le luci per lo spettacolo composto da «Il berretto a sonagli» di Pirandello e dal suo «Sik-Sik, l’artefice magico». E quelle due ore videro rinascere molta parte della storia di Napoli.
Sarà stato il racconto di Roberto Bracco malato che aveva finalmente trovato un bravo medico e però si crucciava perché quel giovane era fascista e per giunta portava di cognome Imperatore. Sarà stato l’incontro con Croce il quale, a Eduardo che gli manifestava la preoccupazione che il fascismo non finisse mai, rispose che, certo, sarebbe finito: «Una bella mattina – disse don Benedetto – vi affaccerete alla finestra e scoprirete che è sparito».
Eduardo ricordava e, sicuramente, pensava alle tante nubi che ancora si addensavano sul nostro capo. Ecco perché all’ironia si mescolava l’amarezza. Ed ecco l’avvertimento implicito – che già aveva lanciato nel ‘76 al Festival Nazionale de «l’Unità» – a non dimenticare, a non distrarsi. Durante quelle due ore con Eduardo riscoprimmo come il teatro possa farsi storia e come Napoli costituisca, con il suo dolore e la sua dignità, una parte non piccola di quella storia.
In seguito, allorché cadde il venticinquesimo anniversario della morte di Eduardo, fu suo figlio Luca a riassumermi il senso profondo della figura di teatrante incarnata dal padre: «Il rigore. Quando penso a lui, penso soprattutto al suo rigore: in ogni senso del termine, e prima di ogni altro nel senso del rispetto per il teatro, per il proprio lavoro e per l’intelligenza degli uomini e delle donne ai quali quel lavoro era indirizzato». E alla mia domanda su quale fosse stata, secondo lui, la lezione principale lasciata da Eduardo, Luca rispose con assoluta convinzione: «Occorre cercarla dentro il suo lavoro, ed è una lezione che riguarda la funzione morale del teatro all’interno della società. Eduardo non ha mai scritto nulla che non sentisse come necessario al momento storico in cui scriveva e salutare per la coscienza di tutti».
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