Maria Martello, mediatrice, formatrice alla mediazione e docente di psicologia dei rapporti interpersonali, si è proposta di indagare il senso profondo della mediazione attraverso le sue radici filosofiche e sapienziali. Per questa ricerca i materiali offerti dal diritto non sono sufficienti anche se il diritto garantisce una linfa di ottima qualità. La verifica del modello di mediazione umanistica-filosofica da lei proposto, è stata condotta da Maria Martello “convocando” accanto a sé cinque esperti: due protagonisti del movimento a favore della mediazione nella giustizia civile (Luciana Breggia) e nella giustizia penale (Roberto Bartoli), un filosofo che negli anni più recenti si è imposto all’attenzione pubblica con l’elaborazione di un principio “fiduciario” del diritto (Tommaso Greco) e due noti teologi (Letizia Tomassone, per parte protestante, e Pietro Bovati, per parte cattolica).
L’obiettivo è piuttosto ambizioso: offrire una «visione unitaria» della mediazione (p. XX), oltrepassando le tassonomie e le differenziazioni tra vari tipi di conflitto, e far dialogare la logica giuridica con il lavoro dell’umanista e, così, favorire «innesti virtuosi tra una proposta educativa[1] alla responsabilità e l’altra impositiva di responsabilità; tra l’obiettivo dell’autonomia della persona e la delega allo Stato» (p. XXI).
Naturalmente, alla base dell’attività di mediazione sta la nozione di conflitto, da tempo oggetto di studi approfonditi anche in Italia, a partire dagli anni ’90 del secolo scorso[2]. Siamo eredi – osserva Maria Martello – di una cultura novecentesca che ha esorcizzato il conflitto interpersonale perché considerato pericoloso, mentre oggi iniziamo ad apprezzarne la «funzione evolutiva». Se si anestetizza il conflitto la relazione viene svuotata: di essa può sopravvivere solo l’involucro inerte del puro diritto.
Certamente, la materia di base del conflitto è costituita dalla paura ma l’accettazione del confronto può trasformare questa emozione primaria in una forza propulsiva e costruttiva: bisogna però riconoscerla e accettarla (p. 24). Si tratta di controbilanciare il sentimento difensivo mosso dall’emozione della paura con un’apertura all’altro che Maria Martello definisce “amore” (p. 27). Utilizzando termini diversi: di fronte alle aspettative tradite si tratta di comprendere come lavorare e recuperare la fiducia (p. 31).
Credo che questo sia un passaggio fondamentale: è necessaria un’opera educativa alla e della responsabilità perché – e qui viene citato Salvatore Natoli – «nelle società contemporanee più avanzate le colpe maggiori non riguardano tanto quel che si fa, ma quel che non si fa: il peccato corrente è l’omissione. Non assumersi responsabilità è il modo migliore per non sentirsi mai colpevoli»[3]. Siamo creature irrevocabilmente interdipendenti e l’ingiustizia maggiore deriva proprio dal mancato riconoscimento di questa interdipendenza (p. 36).
Il conflitto intersoggettivo – anche nelle sue dimensioni collettive – oggi, però, può essere prevenuto e governato dalla mediazione, ormai riconosciuta come un istituto giuridico sia dalla legislazione civile che da quella penale. La mediazione, dunque, ospita il conflitto come carattere intrinseco alla relazione e lo fa vivere «all’interno del diritto». La sua diversità rispetto ai modi tradizionali di trattare il conflitto sta nel superare i limiti dei «fatti oggettivi», per affrontare «le radici degli eventi» per giungere a risposte adeguate «alle offese, ai sentimenti compromessi, alle aspettative deluse, al valore e alla dignità» (p. 4). Per questa ragione la mediazione non è semplicemente un “altro” modo di essere della giustizia ma rientra in «un progetto più ampio del vivere di qualità. Offre un nuovo paradigma della vita sana e ne diventa la via maestra»: una sorta di via per la «buona educazione», come «esperienza del ragionevole» (p. 6). Non c’è dubbio che, in questo senso, la mediazione riveste i caratteri di una giustizia di prossimità (p. 15).
Il mediatore, per quanto collocato sullo stesso piano orizzontale occupato dalle parti e, pertanto, esposto alla sua e all’altrui vulnerabilità, opera all’interno di un ordinamento giuridico definito, viene descritto come un professionista di altissimo profilo culturale e con una formazione specifica che si innesta su percorsi professionali preesistenti. Più precisamente, il mediatore si colloca sul confine (p. 8): su quella soglia egli permette la comunicazione tra le parti e, al tempo stesso, uno scambio tra la dimensione della cura delle relazioni e la trama normativa che le descrive. Si comprende, allora, perché il mediatore è chiamato ad utilizzare le armi dell’empatia e a lavorare in profondità con le proprie e le altrui emozioni (p. 15), senza perdere di vista l’informazione sui diritti delle parti e il raccordo con le dinamiche giudiziarie che, spesso, affiancano il percorso di mediazione.
Maria Martello insiste molto sulla figura del mediatore come “gestore” di emozioni in una doppia direzione: manovratore di emozioni mediante l’intelletto e manovratore di intelletto attraverso le emozioni (p. 44): si chiamano, infatti, emozioni epistemiche. Bella la metafora ripresa da Giovanni Cosi che vede il mediatore penetrare nella “conca” – direbbe Giuseppe Di Chiara – del conflitto per indagare, al di sotto degli interessi, i bisogni, spesso non negoziabili, che emergono dal fondo e, al di sopra, nei piani alti, i diritti e i valori[4].
Il resto del contributo di Maria Martello si snoda lungo i sentieri della tenerezza e della leggerezza (p. 53 e ss.), dell’umiltà e dell’assertività (p. 55 e ss.), del pensiero laterale e della creatività (p. 57 e ss.), dell’empatia e della democrazia (p. 61 e ss.), del silenzio e dell’ascolto (p. 64 e ss.), della comunicazione e della metafora (p. 69 e ss.) e non, da ultimo, della mitezza (p. 74.). Riassumendo: per Maria Martello è possibile una visione unitaria della mediazione che attraversa tutti i possibili campi di applicazione perché il comune denominatore è costituito dal conflitto, inteso come scontro. In secondo luogo, poiché la mediazione è istituto giuridico riconosciuto all’interno dell’ordinamento, la concezione umanistica della mediazione stessa consente il dialogo tra la dimensione intima che le è propria e l’apparato istituzionale a lei esterno.
Si tratta, ora di capire, se queste tesi sono confortate dai contributi degli “specialisti” che Maria Martello ha chiamato a sé.
L’analisi biblica – in particolare nel contributo di Pietro Bovati – non sembra preoccupata di rintracciare un disegno unitario della funzione mediativa: forse viene dato per scontato perché, in effetti, il mondo cattolico è intessuto di ruoli mediativi ad ogni livello ecclesiastico e sociale. Per contro, è costantemente ricordato il dualismo presente nel testo sacro tra il “giudizio” (misphat) e il confronto diretto dei contendenti (riv): mentre il primo è chiamato a dirimere la controversia individuando torti e ragioni e, eventualmente, applicando le pene stabilite, il secondo mira a salvaguardare le relazioni soprattutto in famiglia o tra persone legate da vincoli di amore, tra Dio stesso e il suo popolo (p. 182). Nel commentare il pensiero di Paul Ricoeur, Antoin Garapon – in un suo recentissimo scritto – ci ricorda come uno dei miti della giustizia risiede proprio nel dramma della creazione che segna al tempo stesso la nascita del male. La giustizia non è un ordine perfetto: «il giusto non è il frutto diretto della giustizia, ma il risultato di una lotta permanente»[5].
Va detto, però, che i commenti teologici sviluppati anche da Letizia Tomassone, pastora valdese e docente di studi femministi e di genere, tendono a presuppore una concezione del conflitto non già come scontro tra pari ma come relazione tra un offeso e un offensore, nel quale la posta in gioco è il riconoscimento del male, condizione indispensabile affinché il terzo mediatore possa favorire il risanamento e la rigenerazione della relazione. Quando c’è di mezzo Dio, il fallimento della mediazione – come quella tentata da Abramo per salvare Sodoma e Gomorra – comporta la fine della speranza, l’impossibilità della salvezza e la distruzione della vita: il giudizio riprende il controllo e veicola il potere di punire. Tuttavia, ricorrono spesso esempi di mediazione riuscita e, non raramente, sono proprio le donne a sviluppare questa funzione, come nel caso della donna di Tecoa che si propone di intercedere tra il re Davide e il figlio ribelle Absalom: «Dio non toglie la vita, anzi medita il modo di far sì che il fuggitivo non rimanga bandito lontano da lui» (II Samuele 14, 14). In particolare, l’idea di una giustizia che riconcilia e favorisce il dialogo tra vittima e aggressore si è sviluppata nel contesto ellenistico quando il mondo ebraico è entrato in contatto con altre culture: lo testimoniano il libro dei Proverbi e della Sapienza sotto forma di detti o il libro di Giobbe sotto forma di racconto (p. 164).
Giustamente Letizia Tomassone ci ricorda come solo recentemente, però, una nuova teologia della riconciliazione si sia basata su una interpretazione del sacrificio sulla croce, non più come giustificazione dell’inevitabile esperienza dolorosa patita, tra gli altri, soprattutto da «donne, minoranze sessuali e persone fuori norma» (p. 171) – come è avvenuto per secoli – ma, al contrario, come lotta per la liberazione dal male. Questa teologia della riconciliazione si fonda sulla non violenza e l’interdipendenza nei rapporti tra esseri viventi, nei rapporti con Dio e «propone una co-partecipazione interconnessa degli umani alla vita del pianeta» (p.172).
Anche il contributo filosofico di Tommaso Greco adotta come punto di partenza il conflitto per affermare – fin dall’esordio – che la mediazione e la riparazione (e qui aggiunge un elemento nuovo a cui occorre prestare attenzione) costituiscono una grande occasione per i nostri ordinamenti giuridici per «ripensare in maniera straordinaria, non solo la funzione, ma persino la natura del diritto» (p. 80). Le tesi del filosofo calabrese sono ormai note grazie al suo straordinario lavoro sulla fiducia come fondamento del diritto[6]. Secondo una visione tradizionale – e possiamo aggiungere ancora dominante – il diritto è concepito come uno strumento utile agli uomini per impedire che si distruggano l’un l’altro (è ben noto lo schema di Hobbes): un diritto che piomba verticalmente sulle vicende umane per prevenire e reprimere il disordine e per dare certezze e sicurezza (p. 80). Il luogo privilegiato dove questo diritto trova la sua più compiuta realizzazione è il tribunale e il riferimento elettivo per saggiarne la funzione è il delinquente esposto al rischio di subire delle sanzioni. Questa visione del diritto, per Tommaso Greco, trova la sua corrispondenza in una idea del conflitto concepito come “guerra a bassa soglia” e la sua architettura in un impianto «sfiduciario» (p. 81), sul presupposto che non ci si possa fidare dell’altro e che il diritto serva a dare delle garanzie sul rispetto degli obblighi assunti.
Per pensare, dunque, in modo diverso il conflitto occorre pensare in maniera diversa il diritto: anzi occorre pensare in un modo diverso «l’antropologia che sostiene l’uno e l’altro» (p. 82). In altri termini: questo è l’unico modo per accedere ad una idea di giustizia non più punitiva e sanzionatoria ma «effettivamente riconciliativa, riparatrice, mediatrice». Se ammettiamo che l’essere umano richiede, per la sua stessa sopravvivenza, di poter contare su relazioni fondate sulla fiducia è allora possibile includerla anche nel discorso giuridico. Se si conviene su questo passaggio, si comprende come il diritto sia dotato, innanzitutto, di una dimensione orizzontale «che precede quella verticale» (p. 84). Inserire la fiducia nel diritto è fondamentale perché «sottolineare la priorità cronologica e assiologica del momento orizzontale significa sottolineare la responsabilità che ciascuno di noi ha nel funzionamento giuridico» (p. 84). Significa potersi affidare alla cura dell’altro, reciprocamente.
La via fiduciaria presuppone un approccio antropologico che svela l’altro volto del conflitto: non quello ostile e timoroso che fronteggia il rischio del danno, ma quello aperto al confronto degli interessi e dei bisogni in gioco. Nel confronto le norme giuridiche, a loro volta, dismettono il loro volto minaccioso per assumere una funzione orientativa di scelte vantaggiose per tutte le parti coinvolte. Siamo di fronte, dunque, ad un diritto che si permette di creare, attraverso la responsabilizzazione dei soggetti, un agire solidale e ad una giustizia non più bendata ma capace di attivare gli sguardi (p. 86). Espressione principe di questa modalità fiduciaria dell’essere giustizia è la giustizia riparativa nei suoi passaggi necessari di esposizione delle colpe, accettazione di un percorso comune a vittime e autori in vista di una possibile “redenzione” finale (p.87).
E qui si mette in discussione il diritto normalmente rappresentato non solo come frutto ed esito della violenza ma addirittura come una sua manifestazione. Prendere sul serio la proposta fiduciaria significa, invece, descrivere il diritto come argine alla violenza e, soprattutto, spostare l’aspetto della forza nel diritto da componente primaria a funzione secondaria ed eventualmente patologica.
Il lavoro curato da Maria Martello si propone, però e come ho ricordato all’inizio, di verificare nella concretezza dei sistemi operativi della giustizia quanto possa essere fondata l’ipotesi di una visione unitaria della mediazione e di un rapporto virtuoso tra mediazione e giurisdizione.
Il movimento della mediazione ha trovato il suo terreno più fertile – soprattutto inizialmente – nel trattamento della crisi nelle relazioni famigliari. E la ragione è perfino ovvia: è proprio nella regolazione delle relazioni intime che il puro diritto e l’approccio meramente normativo rischia di essere persino dannoso. Ragioni simili sono all’origine di uno sviluppo straordinario della mediazione nella giustizia penale minorile[7]. L’esigenza di non pregiudicare la traiettoria dell’età evolutiva con interventi punitivi sconsiderati e la flessibilità del diritto penale e processuale minorile hanno favorito quel dispositivo, noto in tutto il mondo, che va sotto il nome di diversion[8], nel quale ha trovato una accoglienza privilegiata la victim-offender mediation. Il lavoro collettivo in esame non prende in considerazione la mediazione famigliare, mentre si sofferma sulla giustizia riparativa. Non va trascurato il passaggio – che non è solo lessicale – dalla mediazione penale alla giustizia riparativa. Questo passaggio è frutto di una evoluzione (o di una involuzione) da pratiche e programmi che hanno privilegiato la dimensione discorsiva e informale dell’incontro tra vittima e autore ad una incorporata nel sistema penale e legittimata dalla recente entrata in vigore di una disciplina organica della giustizia riparativa con il d.lg. 2022/150. Ma, non dobbiamo dimenticare che la prima indica il possibile percorso dialogico; la seconda l’esito di quel percorso, esito che può essere raggiunto anche in forme diverse dalla mediazione.
La giustizia riparativa da tempo ha oltrepassato i confini della giustizia minorile ed è diffusa in tutto il mondo al punto da confondersi, ormai, con pratiche e teoriche di prevenzione e cura di relazioni sociali danneggiate anche in assenza di eventi-reato. Secondo Roberto Bartoli «la giustizia riparativa è autenticamente una giustizia rivoluzionaria» (p. 92). E la rivoluzione è dimostrabile lungo tre assi.
Innanzitutto, la giustizia riparativa è priva non solo di violenza ma anche della stessa componente coercitiva che caratterizza qualunque sanzione perché fondata sull’adesione volontaria e consensuale (p. 93). L’esito è «un reciproco riconoscimento della persona che è nell’altro»: autore e vittima.
In secondo luogo, i protagonisti del fatto non sono collocati ai margini di un sistema governato dallo Stato, come avviene nella giurisdizione penale. Autore e vittima diventano gli artefici «senza filtri o rappresentanze» di «un percorso di confronto all’interno del quale esprimono la propria persona»: la grande novità «è offerta proprio dalla possibilità riconosciuta alla vittima…di esprimere la propria persona, il proprio dolore, il proprio vissuto dell’esperienza reato a tutto tondo e dalla sua autentica prospettiva che trascende il mero fatto» (p. 95). Il mediatore, a sua volta, si spoglia di una funzione giudicante e agevola l’incontro tra le parti per «eliminare le ragioni del conflitto».
In terzo luogo, la giustizia riparativa è sociale e relazionale perché «il percorso mediativo in senso stretto costituisce una realtà in cui lo Stato è totalmente assente» (p. 96).
Giustizia punitiva e giustizia riparativa hanno paradigmi strutturalmente diversi ma organizzano tra loro un rapporto di complementarità. È escluso che la prima possa fare a meno della seconda così come è escluso che la seconda possa soppiantare la prima. La complementarità è stata declinata in modi diversi a seconda delle fasi storiche e a seconda delle culture ordinamentali degli Stati. La scelta italiana è caduta su uno schema che prevede: in caso di esito positivo del programma riparativo vantaggi significativi per l’autore del fatto; una potenziale applicabilità per qualsiasi reato e in qualunque fase e grado del procedimento; assenza di riflessi processuali e sostanziali negativi per l’accusato in caso di fallimento, rifiuto o interruzione del programma riparativo.
La storia delle origini della mediazione civile e commerciale presenta significative differenze rispetto alle evoluzioni della mediazione nei contesti famigliari e penali. Queste differenze sono ancora più accentuate nelle esperienze che hanno interessato le attività “compositive” della pubblica amministrazione sia nei rapporti con il privato cittadino sia in quelli tra enti pubblici e privati tra loro.
La mediazione civile si è storicamente presentata al cospetto dei tribunali – a partire dalle vicende americane negli anni ’80 del secolo scorso – come una possibile via d’uscita dalla cd. litigation explosion, attraverso una indubitabile spinta deflativa. In Italia la mediazione civile è stata preceduta da una tradizione conciliativa giudiziale, divenuta asfittica col passare degli anni. L’introduzione di questo nuovo modello ha comportato uno «spaesamento» per i giuristi forgiati secondo una cultura autoritativa. L’entrata in vigore della riforma del 2010, che ha adottato la mediazione come sistema generale di gestione dei conflitti riguardanti diritti disponibili, ha però inciso profondamente sulla giurisdizione: con una riscoperta della conciliazione giudiziale e, soprattutto, con un arricchimento del percorso giudiziario che è rimasto contaminato in «una prospettiva psicologica, comunicativa ed emotiva» (p. 117). Come non cogliere, già in questo passaggio, la profonda differenza tra la giustizia riparativa e la mediazione civile.
La giustizia civile – osserva Luciana Breggia – è stata travolta da un movimento che ha portato in dote non solo la mediazione ma anche il diritto collaborativo, la negoziazione assistita e, in generale, una giustizia consensuale. Sembra un ossimoro, ma l’ex magistrata e coordinatrice degli Osservatori per la giustizia civile attribuisce l’effetto positivo di questo “vento dell’ovest” «allo scrollone che l’obbligatorietà del tentativo di mediazione previsto dal d.lgs. n. 28/2010 ha dato al sistema tradizionale» (p. 118). La riforma del 2022 sembra confermare la scelta a favore di una «mediazione presa sul serio» (p. 139).
Secondo la giurista, la lezione di Paolo Grossi e di Stefano Rodotà dovrebbero convincerci che la distinzione tra mediazione e giurisdizione non passa attraverso la distinzione tra interessi e diritti. Lo Stato e la giurisdizione – non diversamente dal mediatore – hanno l’obbligo costituzionale di assicurare una tutela «effettiva», di «ricercare la soddisfazione dell’interesse materializzato non espressamente previsto nella fattispecie legale, ma compatibile con la sua ratio, attraverso il ricorso a tecniche di disapplicazione, all’interpretazione conforme, all’uso di clausole generali, di principi» (p. 119). La differenza, dunque, non sta nella nozione di interesse ma nella facoltà riservata ai sistemi non giurisdizionali di prescindere dall’indagare se l’interesse perseguito dalle parti goda effettivamente di una tutela giuridica: non è necessario intravedere sullo sfondo normativo la fattispecie astratta dell’interesse (p. 121). Ciò significa, però, sul versante giurisdizionale, ammettere che anche il giudice è chiamato a recuperare «l’aspetto relazionale del diritto». Se esiste un’alterità tra giurisdizione e mediazione – una riserva di esclusiva a favore dei tribunali – la si deve rintracciare, caso mai, di fronte all’ingiustizia, alle disuguaglianze, a relazioni altamente asimmetriche, dove sono in gioco la dignità delle persone, diritti soggettivi collettivi, beni con dimensioni superindividuali (p. 123).
Al di là di queste eccezioni, se si rivaluta l’assetto relazionale del diritto si trova più agevolmente lo spazio per un sistema plurale di giustizia ed è indubbiamente il modello fiduciario – laddove Luciana Breggia richiama Tommaso Greco – che meglio si adatta ad una giustizia consensuale perché presuppone «una visione antropologicamente positiva dell’essere umano, capace di negoziare, di mediare, di collaborare nella soluzione dei conflitti che attraversa inevitabilmente» (p. 127).
Credo che i contributi raccolti da Maria Martello meritino un approfondimento di alcune questioni fondamentali che qui si possono solo accennare.
È certamente condivisibile il tentativo di fondare la mediazione (non anche la giustizia riparativa, secondo me) su un principio fiduciario che si manifesti attraverso il diritto cd. orizzontale. Non sono, però, sicuro che si possa affermare la priorità cronologica e assiologica del diritto fiduciario perché un tale assunto richiederebbe di essere scientificamente fondato su basi – è lo stesso Tommaso Greco a riconoscerlo – antropologiche. Non me la sento di aderire a questa analisi perché vorrebbe dire aver risolto il dilemma sulla natura originariamente egoistica o altruistica della creatura umana. Bisognerebbe smentire, in modo argomentato, la stessa tesi di Freud secondo cui il sentimento d’odio è più originario di quello dell’amore perché contribuisce alla definizione di sé.
Al contrario sono abbastanza convinto che, pur ammettendo l’esistenza di un principio fiduciario co-fondativo del diritto, la norma contiene in sé la radice della violenza (in senso lato) che deve tacitare o controllare. Ogni richiamo e applicazione della norma è rievocazione dei fatti violenti che ne hanno decretato l’origine.
La mediazione, nel tumulto delle emozioni che la contraddistinguono, e proprio perché le emozioni nascono, in questo caso, sullo sfondo normativo al quale le parti fanno riferimento attraverso le loro rispettive pretese, non è, di per sé, non violenta. È diversamente violenta, infinitamente meno violenta delle procedure giudiziarie che assoggettano i partecipanti. Ma a mio avviso non è esente dal rischio di riprodurre la violenza originaria. Per quale ragione, infatti, ci si deve preoccupare della professionalità, della competenza, dell’eticità dei mediatori quando non addirittura del rischio di vittimizzazione secondaria quando all’origine ci sono addirittura dei delitti?
Certamente tra mediazione e giurisdizione ci sono principi e regole diverse. Ma nella prospettiva del rapporto tra diritto e violenza le due dimensioni lavorano in assoluta contiguità. Gli strappi che il movimento per la mediazione ha comportato per la giurisdizione hanno alimentato, però, un’alterità apparente che si sta risolvendo attraverso un riordino e un riorientamento della giurisdizione stessa. L’irruzione della giustizia riparativa nel sistema penale è troppo recente per cogliere queste contaminazioni e le conseguenti trasformazioni. Diversamente per la giustizia civile, il saggio di Luciana Breggia dimostra bene l’intreccio dei modi alternativi di risoluzione dei conflitti con la giurisdizione a tutto vantaggio di nuovi equilibri nei quali tutti gli attori possono fare riferimento ad una giustizia che possiamo definire, complessivamente, “consensuale”.
Si tratta di un consenso che è sempre più decisivo e strategico anche nel sistema penale ben al di là della giustizia riparativa. Infatti, il diritto e la procedura penale sono attraversati da decine di dispositivi (come la messa alla prova, le sanzioni sostitutive, i lavori di pubblica utilità) basati sulla consensualità e la libertà della scelta dell’accusato. Ma, non per questo, meno afflittivi o umilianti, per quanto possano promuovere la socialità e la crescita personale dell’interessato.
Non c’è dubbio che la libertà, la volontarietà e il consenso su cui si basano la mediazione e la giustizia riparativa rivelano un orientamento verso forme ulteriori di democratizzazione. Eppure, non dobbiamo smettere di domandarci se questa evoluzione possa essere davvero il seme di una emancipazione degli individui o l’espressione di una loro servitù volontaria.
[1] A dire il vero il tema dell’educazione non è stato sviluppato nei vari contributi se non da Luciana Breggia che al tema ha dedicato un apposito capitolo (La mediazione come strumento educativo, p. 148 e ss.) del suo saggio, anche alla luce della sua esperienza di scrittrice per l’infanzia e di progetti nelle scuole realizzati dall’Associazione Il giudice alla rovescia da lei fondata.
[2] Per un panorama delle prime ricerche in Italia vale la pena affidarsi alla lettura di Emanuele Arielli, Giovanni Scotto, I conflitti. Introduzione a una teoria generale, Bruno Mondadori, Milano, 1998, e, in una prospettiva più mirata, si veda Stefano Castelli, La mediazione. Teorie e tecniche, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
[3] Salvatore Natoli, Parole della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2004. Qui riecheggia la tesi della filosofa Judith Shklar secondo cui è l’indifferenza la radice prima dell’ingiustizia come ci spiega nel suo I volti dell’ingiustizia. Uno sguardo scettico, Mimesis, Milano, 2024, un testo riapparso in libreria a distanza di 24 anni dalla prima edizione italiana.
[4] Giovanni Cosi, Giuliana Romualdi, La mediazione de conflitti. Teoria e pratica dei metodi ADR, Giappichelli, Torino, 2012.
[5] Antoine Garapon, Processo penale e forme di verità, Mimesis, Milano, 2024, p. 46.
[6] Tommaso Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Laterza, Bari-Roma, 2021.
[7] La letteratura sulle origini della mediazione famigliare e nella giustizia minorile è semplicemente sterminata e non ha alcun senso richiamarla neppure parzialmente.
[8] Termine intraducibile in italiano ma intuitivamente comprensibile: indica la “fuoriuscita” dal procedimento penale per assicurare soluzioni personalmente e socialmente adeguate che non interferiscano sullo sviluppo morale e psicologico del minorenne.
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