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Nel definire la legge di bilancio, e cioè il provvedimento con cui si decide la politica economica per il prossimo anno, il governo ha privilegiato gli interessi delle famiglie con redditi medi o bassi (sotto i 40mila euro) e dei lavoratori dipendenti. È un approccio che il governo di Giorgia Meloni segue fin dal suo insediamento, e che va un po’ in controtendenza rispetto agli orientamenti tradizionali della destra. Nel dover decidere come utilizzare le poche risorse disponibili, in un contesto di estrema ristrettezza di bilancio, la presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti hanno riservato grande attenzione a delle categorie sociali che vengono – o quantomeno venivano, fino a qualche tempo fa – tradizionalmente considerate un bacino elettorale dei partiti progressisti.
Questo approccio ha generato, per converso, dei risentimenti nei settori che invece storicamente si sentivano più tutelati dal centrodestra, e cioè anzitutto gli imprenditori. Secondo Confindustria, la principale organizzazione che rappresenta le imprese italiane, nella manovra «sono sostanzialmente assenti il sostegno agli investimenti e alle imprese che li realizzano»: in effetti alcuni progetti del ministero delle Imprese che andavano in questa direzione sono stati definanziati e sensibilmente ridotti per l’esigenza di ridurre la spesa. Sono state poi contestate misure che scoraggiano le iniziative imprenditoriali, soprattutto nei settori più innovativi e tecnologici, e altre accusate di avere un generale approccio statalista, un po’ populista e ostile all’innovazione.
Anche l’ufficio parlamentare di bilancio, cioè l’organismo indipendente che vigila sulla finanza pubblica, ha fatto notare che nel complesso le misure relative alle imprese «appaiono frammentarie e per lo più orientate al finanziamento complessivo della manovra»: più che all’obiettivo di stimolare la crescita economica e la produttività, sono insomma ispirate dall’esigenza di fare cassa per far tornare i conti.
Non a caso gli stessi parlamentari di maggioranza stanno proponendo degli emendamenti per correggere, attenuare o eliminare del tutto queste misure dal testo della legge di bilancio. Dalla maggioranza ne sono stati presentati già circa 1.200: sono tanti, per una legge di bilancio che viene dalla propria parte politica (le opposizioni ne hanno presentato circa 3.300). A essere infastiditi sono perlopiù deputati e senatori di Forza Italia e della Lega: in attesa di comprendere quali dei loro emendamenti verranno accolti e in che modo il governo si pronuncerà su di essi, stanno persino cercando degli accordi coi partiti di opposizione per spingere il ministero dell’Economia a rivedere alcune norme. Consapevole di queste dinamiche, Giorgetti nei giorni scorsi ha detto di essere disposto a considerare alcuni di questi emendamenti, pur ribadendo che i principi alla base delle misure contestate non cambieranno molto, e dunque di fatto limitando molto lo spazio di intervento del parlamento nell’analisi della legge di bilancio.
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Una delle misure maggiormente contestate dalle imprese è il taglio delle detrazioni fiscali (escluse quelle relative alle spese sanitarie) per i redditi sopra i 75mila euro. Il fisco italiano prevede tutta una serie di agevolazioni e bonus che consentono in sostanza di pagare meno tasse, e che favoriscono in molti casi solo alcune categorie produttive o alcune professioni. Con la legge di bilancio il governo snellisce questi bonus, con l’obiettivo prioritario di aumentare le entrate: si stima che in questo modo entreranno nelle casse dello Stato circa 230 milioni di euro in più a partire dal 2026 (una somma che dovrebbe aumentare negli anni seguenti, fino al 2029, quando dovrebbe raggiungere a regime 900 milioni all’anno).
Secondo Confindustria questo taglio delle detrazioni disincentiverà anche alcune delle spese e degli investimenti che le imprese sostengono per portare avanti le proprie attività.
Con questa misura, peraltro, la legge di bilancio produce il paradossale effetto di rendere inutili alcune agevolazioni fiscali che una legge voluta dalla destra e approvata appena a metà ottobre riconosce alle start-up (cioè alle piccole aziende di recente fondazione) e alle piccole e medie imprese considerate innovative (quelle che investono una certa cifra in settori innovativi). Il deputato leghista Giulio Centemero, che era stato il principale promotore della legge, ha annunciato degli emendamenti alla legge di bilancio per correggere questa misura (che smentisce anche alcuni impegni presi con il settore dal ministro delle Imprese Adolfo Urso). Al momento comunque non è affatto scontato che il ministero dell’Economia li accolga favorevolmente.
Un altro intervento che genera grosse perplessità tra i parlamentari di destra è l’innalzamento delle ritenute fiscali sui rendimenti fatti con criptovalute, dal 26 al 42 per cento. L’intervento dovrebbe garantire al bilancio statale maggiori entrate per circa 16 milioni di euro: una cifra molto contenuta e che non giustifica un intervento di questo genere, che sembra avere più che altro lo scopo di scoraggiare l’investimento nel settore delle criptovalute. Il viceministro dell’Economia Maurizio Leo, di Fratelli d’Italia, ha giustificato la norma dicendo che gli investimenti in criptovalute sono «un fenomeno che va diffondendosi»: alla base c’è la convinzione, condivisa soprattutto in Fratelli d’Italia, che gli investimenti in questo settore vadano scoraggiati per favorire invece il risparmio tradizionale.
Come ha spiegato il commissario della Consob (cioè l’autorità pubblica che vigila sul mercato finanziario), Federico Cornelli, che è tra gli ispiratori del provvedimento, il risparmio in criptovalute è privo di «caratteristiche di utilità sociale». Tassare così aspramente questo settore dovrebbe dunque incoraggiare le persone a investire in maniera più tradizionale i loro soldi (titoli di Stato, mercato azionario, depositi bancari). Al tempo stesso, però, l’effetto che molti temono è che questa misura spingerà gli operatori di un settore in grande crescita a investire all’estero, probabilmente producendo un effetto negativo sul gettito (meno persone, cioè, pagheranno le tasse per le loro attività in criptovalute in Italia).
Sempre a proposito di settori innovativi, ha generato un certo malcontento nella maggioranza di destra la norma sulla cosiddetta digital tax (a volte chiamata anche web tax). Il governo estende l’imposta sui servizi digitali, cioè fondamentalmente sui ricavi che siti e social network traggono dalla pubblicità online, a tutte le imprese che operano nel settore, anche le più piccole: in questo modo vengono eliminati i limiti finora esistenti, per cui la tassa si applicava solo alle multinazionali che facevano ricavi complessivi superiori a 750 milioni di euro di cui almeno 5,5 milioni realizzati in Italia. La norma nasce da una battaglia politica che Fratelli d’Italia – e alcuni esponenti di Forza Italia come il capogruppo al Senato, Maurizio Gasparri – conducono da anni contro quelli che spesso vengono definiti in questi contesti “giganti del web”, invocando una web tax globale o quantomeno europea.
Anche la Banca d’Italia ha criticato gli esiti di questa norma, sostenendo che in assenza di una tassazione armonizzata a livello internazionale «l’Italia diventerebbe il primo paese dell’UE a eliminare qualsiasi soglia di applicazione dell’imposta sui servizi digitali, andando a colpire anche piccole e medie imprese». L’obiettivo è di aumentare le entrate di appena 50 milioni di euro nel 2025, altra cifra piuttosto bassa. Peraltro verrebbe raggiunto tassando i ricavi (cioè quello che un’impresa incassa) e non i profitti (ovvero gli utili al netto delle spese), seguendo cioè un principio di tassazione contro cui da sempre il centrodestra e la destra si battono, ritenendolo iniquo e dannoso per i piccoli e medi imprenditori. Sempre secondo Banca d’Italia, è un approccio che «potrebbe essere particolarmente penalizzante per le start up, che di solito iniziano a generare utili solo dopo qualche anno dall’avvio».
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C’è poi una misura che meglio di altre mostra la distanza tra ciò che vuole fare il governo e le esigenze manifestate dalle imprese, per la quale la destra è stata accusata di un eccessivo “statalismo”, cioè di voler avere un forte controllo sull’economia e sulle aziende fino a diventare troppo invadente. È quella che introduce l’obbligo, da parte delle società che ricevono almeno 100mila euro all’anno di contributi pubblici, di inserire un rappresentante del ministero dell’Economia all’interno dei propri collegi sindacali o collegi di revisori, cioè di quegli organi che vigilano sulle attività delle società stesse. L’obiettivo dichiarato del governo è quello di garantire che i fondi pubblici vengano impiegati in maniera efficiente e virtuosa. Da più parti questa norma è stata contestata, specie da rappresentanti delle imprese. Confindustria l’ha definita «del tutto sproporzionata», ritenendo che «denota un’eccessiva diffidenza verso le imprese» e dimostra come la manovra risulti «intrusiva nelle dinamiche d’impresa».
Sarebbe una misura senza precedenti in Italia. Quando, nella scorsa legislatura, i partiti del centrosinistra avevano fatto proposte analoghe, Lega e Forza Italia le avevano duramente contestate. E quando, nel maggio del 2020, era stato il vicesegretario del Partito Democratico Andrea Orlando a suggerire una misura simile per vincolare l’erogazione dei sussidi statali durante la pandemia, esponenti di Forza Italia avevano parlato di «rigurgito ideologico statalista» e avevano paragonato Orlando al dittatore sovietico Josip Stalin.
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