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“Maltempo e impennata dei costi”. Grano, le incognite sulla produzione #finsubito prestito immediato


Sarà, forse, colpa anche di Turchia e Russia come recita una corrente di pensiero, ma la produzione di grano in Italia, pur a fronte di un prodotto di alta qualità, vive un momento storico di luci e ombre. Se parliamo di grano tenero c’è poco da stare allegri. Le piogge insistenti che hanno colpito buona parte dell’area Nord-Ovest poco prima della trebbiatura, hanno compromesso non solo le rese ma anche la qualità del raccolto 2024. Anche per il grano duro tuttavia il barometro non segnala bel tempo. Durante la giornata mondiale della pasta, alimento simbolo dell’Italia, le associazioni e i produttori hanno sollevato il tema riflettendo sul fatto che il settore ha necessità di essere ripensato. “Per mantenere la reputazione del Made in Italy occorre rafforzare l’intera filiera e far conoscere di più le prerogative del nostro prodotto – afferma Confagricoltura –, una strada non semplice alla luce di alcuni fattori: il clima che influisce sui raccolti di grano duro, la produzione italiana lontana dal fabbisogno dell’industria di trasformazione, le notevoli differenze qualitative della materia prima da zona a zona che richiedono interventi strutturali”. I numeri non dicono tutto, ma spiegano molto. Il nostro Paese è il primo produttore mondiale di pasta, davanti alla Turchia e agli Stati Uniti, nonché il primo esportatore, con un valore intorno ai 4 miliardi. Ma il tasso di autoapprovvigionamento di grano duro è passato dal 78% del 2012 al 56% del 2023, con un trend sotto il 50% per il 2024. E purtroppo, sempre in Italia, negli ultimi dodici mesi c’è stata anche una diminuzione del 20% del prezzo medio all’origine del grano duro, che è passato da circa 363 euro a tonnellata a 287. Se gli agricoltori piangono, o almeno non ridono, hanno buoni motivi.

In Emilia-Romagna nel 2023 la superficie coltivata a grano duro era di 87.374 ettari, scesa a 69.511 nel 2024, quella a grano tenero 156.744 ettari nel 2023 e 140.891 nel 2024. È evidente che qualcosa non funziona. Gli agricoltori sono gente tosta, ma la crisi pesa. È soprattutto dalla bassa bolognese e modenese che arriva il grano tenero “di forza” essenziale per produrre farine ricche di glutine quindi di proteine. Spiega Gian Pietro Cardinali che a San Felice sul Panaro (Modena) lo coltiva da anni: “Questo tipo di grano ha caratteristiche qualitative eccezionali (elevati livelli di proteine e di peso specifico) e prezzi all’agricoltore superiori a quelli di listino anche di 5-6 euro al quintale. Servono però buone tecniche agronomiche e un clima favorevole, con assenza di piogge, in particolare nella fase finale del ciclo colturale. Per il futuro bisogna lavorare sulla qualità e tracciabilità del prodotto poi credere nei progetti di filiera per ottenere una migliore remunerazione”. Achille Savini, presidente della sezione cereali di Confagricoltura Emilia-Romagna, coltiva grano duro tra Ravenna e Forlì. “Le quotazioni sono basse, uguali a quelle di dieci anni fa, con costi di produzione, però, quasi raddoppiati, chi è in affitto poi non ha margine di guadagno”. Insiste “sulla valorizzazione dei contratti di filiera in particolare per la pasta Barilla, un prodotto 100% made in Italy”, ma chiede “maggiori premialità e incentivi tra cui la possibilità di avere un prezzo minimo garantito sul totale contrattualizzato e non solo su un terzo”. In sostanza i produttori chiedono di valorizzare le filiere nazionali, con prezzi più soddisfacenti alla produzione e distinguere il prodotto italiano da quello estero meno tracciato e talvolta di dubbia provenienza. Lotta dura senza paura ma la strada è in salita. Dice il presidente di Confagricoltura Emilia-Romagna Marcello Bonvicini: “Le quotazioni di mercato penalizzanti allontanano i produttori, siccità e alluvione rendono più complicata la coltivazione in termini di resa”. Confagricoltura sottolinea anche la necessità di adottare misure che riducano al minimo l’impatto delle restrizioni ambientali, per evitare che gli agricoltori siano costretti a rinunciare a parte delle attività o ridurre la produzione. Un centro di gravità permanente difficile da trovare, eppure necessario.



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