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Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 60 di We – World Energy, il magazine di Eni

La transizione dai sistemi di produzione e consumo di energia basati sui combustibili fossili alle fonti di energia rinnovabile non è più un’idea marginale, considerando il numero di economie globali che punta a trasformare in realtà le proprie aspirazioni di zero emissioni nette. La transizione rappresenta uno dei modi più validi per mitigare gli impatti del cambiamento climatico di natura antropogenica generato dal rilascio di gas a effetto serra (Ghg), in primis l’anidride carbonica. I sistemi energetici globali sono responsabili di circa il settantatré percento dei Ghg.

L’Accordo di Parigi siglato dai governi mondiali nel 2015 in occasione della Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite (COP 21) aveva come fine quello di limitare il riscaldamento globale ben al di sotto di 2°C (preferibilmente 1,5°C) rispetto ai livelli preindustriali.

La transizione è trainata dal progresso tecnologico, dalle nuove politiche energetiche promosse dai governi globali (soprattutto in un contesto post-pandemia di Covid19, oltre che di conflitto tra Russia e Ucraina) e dalle mutate pressioni ambientali, sociali e di governance (Esg) sulle aziende.

Le scosse di assestamento della guerra Russia-Ucraina e le inasprite tensioni geopolitiche, per esempio, hanno costretto molte economie a introdurre politiche, leggi e regolamenti per mitigare i rischi strategici legati alla filiera delle risorse energetiche e delle materie prime critiche necessarie per la transizione energetica.

Per ricavare energia dalle fonti rinnovabili servono quantità significative di materie prime critiche (Mpc), fondamentali per il programma globale di decarbonizzazione, che spazia dalla produzione di turbine eoliche e reti elettriche a quella di veicoli elettrici (Ve). In altre parole, per passare dall’attuale sistema energetico basato sui combustibili fossili a uno più pulito nell’ottica di raggiungere gli obiettivi zero netto del 2050 si rendono necessarie nuove tecnologie energetiche, che si basano su minerali critici quali rame, litio, nichel, manganese, grafite, cobalto e altre terre rare.

Se da un lato la filiera di molti di questi minerali è controllata dalla Cina, leader nella produzione o nella trasformazione in almeno una delle fasi critiche della filiera dei minerali e coinvolta nella raffinazione del novanta per cento delle terre rare globali e del settanta per cento del litio e del cobalto, dall’altro l’Africa vanta la presenza di un enorme bacino di Mpc non sfruttato e di un’industria estrattiva che potrebbe soddisfare il fabbisogno di minerali della transizione e consentirle al contempo di cavalcare l’onda delle aspirazioni di industrializzazione da tempo coltivate.

Disponibilità di risorse
L’Africa dispone di una quantità significativa di Mpc, abbastanza per alimentare le proprie esigenze energetiche industriali e quelle globali. Attualmente, le stime indicano che seicento milioni di persone, vale a dire il cinquanta per cento degli 1,21 miliardi di abitanti dell’Africa subsahariana, non hanno accesso all’elettricità – deficit che si acuisce maggiormente nell’Africa occidentale, centrale e orientale, dove alcuni Paesi come il Ciad, la Repubblica Democratica del Congo e il Mozambico riportano tassi inferiori al trentacinque per cento.

Per i Paesi con tassi di accesso ancora più elevati, la mancanza di forniture ha reso il razionamento dell’energia ancor più impegnativo, come dimostrano i recenti esempi del Sudafrica e del Ghana (2013-2016 e 2023). Inoltre, l’Africa rimane il continente meno diversificato a livello globale, il che lo rende altamente vulnerabile agli shock esterni, come dimostrato dalle recenti pressioni sul costo della vita.

Per l’Africa subsahariana, soprattutto in un’ottica di industrializzazione, è necessario che il consumo di energia (elettrica) aumenti di oltre dieci volte rispetto all’attuale consumo medio pro capite di 180 kWh (Sudafrica escluso); il dato è originato dal confronto coi 13.000 kWh pro capite degli Stati Uniti e i 6.500 kWh dell’Europa. Questa energia potrebbe derivare dallo sfruttamento delle Mpc e potrebbe consentire di produrre nuove forme di energia più pulita nel continente, oltre ad altre convenzionali quali il gas naturale a combustione pulita.

Il continente rappresenta circa il trenta per cento delle riserve minerarie mondiali e rispettivamente il dodici per cento e l’otto per cento delle riserve mondiali di petrolio e gas naturale. Inoltre, dispone del quaranta per cento dell’oro a livello mondiale, circa il novanta per cento del cromo e del platino e le maggiori riserve di cobalto, diamanti, platino e uranio.

La sola Africa subsahariana possiede oltre il cinquanta percento dei minerali critici necessari per la transizione all’energia verde. Per quanto riguarda il rame, i dati dell’Usgs riportano che Zambia e Rdc possiedono circa il 5,6 per cento delle riserve globali, dal 13,5 percento della produzione estrattiva globale e dal 7,9 percento della raffinazione. Tra gli altri produttori si annoverano Sudafrica, Marocco, Mauritania e Zimbabwe.

Tra i maggiori produttori di bauxite, raffinata in allumina e poi fusa in alluminio, vi sono Guinea, Sierra Leone, Mozambico e Ghana. Per quanto riguarda il manganese, nel 2022 Gabon, Costa d’Avorio, Ghana e Sudafrica hanno rappresentato collettivamente il sessantasei per cento della produzione estrattiva. Analogamente, Sudafrica, Zimbabwe, Tanzania, Zambia e Madagascar possiedono depositi significativi di nichel.

Infine, Paesi come il Ghana e lo Zimbabwe hanno scoperto importanti risorse di litio nelle rispettive giurisdizioni, mentre altri, come la Namibia, il Mali e l’Etiopia, vantano un significativo potenziale per nuove scoperte, oltre che miniere che entreranno in funzione nei prossimi cinque anni.

Sfruttare le Mpc per uno sviluppo inclusivo
Storicamente, nonostante l’abbondanza di risorse energetiche e minerarie, l’Africa ha dovuto affrontare grandi sfide in materia di energia e di industrializzazione. La debolezza della propria base industriale ha reso il continente molto più esposto agli shock commerciali esogeni, dal momento che spesso esporta materie prime con poco valore aggiunto.

Il calo del valore manifatturiero ingloba la portata delle sfide dell’industrializzazione dell’Africa: negli ultimi 30 anni la quota della produzione manifatturiera misurata dal prodotto interno lordo (Pil) è diminuita, mentre il portafoglio di esportazioni è divenuto meno complesso e meno diversificato rispetto ad altre regioni.

Nei primi anni post-indipendenza, molti Paesi africani erano più prosperi e produttivi rispetto ai loro pari dell’Asia orientale; molte economie asiatiche, un tempo liquidate come “casi disperati”, hanno accresciuto le proprie loro fortune attraverso l’industrializzazione e l’aggiunta di valore, grazie al boom della liberalizzazione e della globalizzazione a partire dagli anni ‘80 e ai conseguenti forti investimenti in capitale umano, per citare degli esempi.

D’altro canto, l’Africa rimane in gran parte un esportatore di materie prime in tutto il mondo – comprese le principali economie asiatiche come la Cina, dove la maggior parte delle Mpc finisce per essere trasformata in prodotti a valore aggiunto, tra cui precursori e batterie per veicoli elettrici. Per soddisfare le nuove esigenze di industrializzazione, molti governi africani cercano ora di sfruttare il previsto boom della domanda di energia e di Mpc per promuovere l’innovazione e la produttività e invertire la prematura deindustrializzazione nel continente.

Per cogliere le opportunità condivise che derivano dal boom delle Mpc, è necessario che l’Africa non sia vista come un mero fornitore e che fondamentalmente gli investitori in arrivo supportino l’aggiunta di valore nel contesto della lavorazione dei minerali attraverso un nuovo paradigma di industrializzazione basato sulle risorse.

Innanzitutto, l’Africa offre vantaggi unici per contribuire ad aumentare e diversificare l’offerta globale di Mpc: l’Ue, per esempio, a oggi ricava il sessantatré per cento dell’alluminio dalla Guinea, il trentacinque per cento del tantalio dalla Rdc e il quarantuno per cento del fabbisogno di manganese dal Sudafrica. Considerando la quasi dipendenza dell’Ue dalle importazioni di questi metalli, si profila l’opportunità di sviluppare e approfondire ulteriormente tale aspetto attraverso iniziative di friend-shoring con questi e altri Paesi africani; ne è un buon punto di partenza il partenariato strategico stretto nell’ottobre 2023 tramite un memorandum d’intesa sui minerali critici siglato nell’ambito del Progetto Global Gateway tra l’Ue, lo Zambia e la Rdc. Tuttavia, ancora si è in attesa di un cronoprogramma e di un piano d’azione esaustivi che ne riportino i dettagli.

L’accesso ai finanziamenti
In secondo luogo, e questo è un aspetto ancora più importante, la disponibilità di approvvigionamento di queste Mpc sostenibili dipende essenzialmente dalla capacità dei governi globali africani e delle agenzie multilaterali di provvedere al necessario sostegno finanziario e agli strumenti di de-risking degli investimenti, come le garanzie alle aziende disposte a investire in imprese di prospezione e produzione mineraria, nonché in progetti infrastrutturali correlati quali ferrovie e porti nei Paesi africani.

A tal proposito, è indispensabile ridurre il costo e l’accesso ai finanziamenti globali multilaterali, bilaterali e privati per i progetti della catena del valore delle Mpc in Africa; fondamentale è la possibilità di godere di prestiti agevolati, sovvenzioni, fondi misti delle istituzioni finanziarie per lo sviluppo e crediti all’esportazione.

Infine, serve un ulteriore finanziamento per costruire gli impianti di lavorazione necessari per trasformare le materie prime in prodotti intermedi. Nel 2022 diversi Paesi africani (tra cui tra cui lo Zimbabwe, la Rdc, lo Zambia, la Namibia e il Ghana) hanno imposto divieti all’esportazione di minerali grezzi, desiderando maggiori contenuti e partecipazione a livello locale. Nell’agosto 2023, per esempio, il Ghana ha introdotto una nuova politica sui minerali verdi che vieta l’esportazione di Mpc non lavorate, come il litio.

Servono finanziamenti per invertire la narrazione storica dell’esportazione di materie prime e passare alla produzione di semilavorati intermedi per la realizzazione di celle per batterie e altri componenti necessari per la transizione energetica, anziché spedire queste materie prime in Cina e in altri luoghi.

Uno studio del 2021 condotto da BloombergNef mostra che alcuni Paesi africani (come la Rdc) potrebbero godere di un vantaggio in fatto di Mpc rispetto alla Cina e agli Stati Uniti mediante lo «sfruttamento delle abbondanti risorse di cobalto e dell’energia idroelettrica per divenire un produttore a basso costo e a basse emissioni di precursori per catodi delle batterie agli ioni di litio» a livello globale.

Theophilus Acheampong è economista e analista, Theophilus Acheampong è docente associato presso il Center for Energy, Petroleum and Mineral Law and Policy dell’Università di Dundee e docente associato presso l’Aberdeen Center for Research in Energy Economics and Finance dell’Università di Aberdeen.

 

 

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