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Per adeguarsi alla direttiva europea sull’efficientamento energetico delle abitazioni – le cosidette ‘case green’ – serviranno almeno 180 miliardi di euro. Lo hanno calcolato gli esperti del Politecnico di Milano in una ricerca che sarà presentata il prossimo 19 giugno e che Il Sole 24 Ore ha anticipato. La normativa europea – peraltro non ancora recepita dall’Italia – prevede che il consumo energetico degli immobili debba essere ridotto del 16% entro il 2030. Mentre per il 2035 toccherà raggiungere quota 20-22%. Ma dove troveremo tutte quelle risorse, anche considerando che siamo appena usciti (e non ancora del tutto) da una complicata stagione di bonus edilizi che hanno messo in ginocchio i conti pubblici? Una domanda alla quale nemmeno un economista come Giampaolo Galli, direttore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici della Cattolica di Milano, sa trovare risposta precisa. Certo, sempre che la direttiva sopravviva alla nuova legislatura Ue in procinto di iniziare.

“Francamente – ci dice Galli – credo sia molto difficile che questi soldi vengano dal settore pubblico data la situazione dei conti”. Nel giro di appena quattro anni, stimava ad aprile il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, la spesa pubblica per tutti i bonus edilizi (a partire dal radioattivo Superbonus 110%), ha toccato quota 219 miliardi di euro. Praticamente come l’intero Pnrr. L’Osservatorio britannico Oxford Economics li ha incoronati “peggior misura fiscale italiana degli ultimi dieci anni”. Stiamo parlando infatti di un intervento che ha migliorato l’efficienza energetica di un 3-4% degli immobili italiani ma a un costo elevatissimo: i duecento miliardi e rotti di bonus edilizi si tradurranno in un rigonfiamento del debito pubblico pari al 2% del Pil all’anno del periodo 2024-2026. Per la cronaca, l’Italia entrerà in procedura di infrazione delle regole sui conti pubblici a partire proprio da quest’anno.

Si fa fatica dunque a comprendere dove, da qui al 2030, riusciremo a trovare le risorse per rispettare gli obiettivi posti dalla direttiva di Bruxelles, che per fortuna è stata in parte ridimensionata negli scorsi mesi. Se entro il 2030 dovremo ridurre del 16% i nostri consumi energetici ed entro il 2035 del 20-22%, la direttiva lascia un certo spazio discrezionale allo Stato membro per decidere come perseguire queste percentuali, con tanto di eccezioni che ‘salveranno’ diversi casi particolari: non saranno costretti a contribuire alla riduzione del consumo medio nazionale gli edifici sottoposti a vincolo puntuale o a vincolo d’area (centri storici o parchi), gli edifici dedicati a scopi di difesa, le seconde case utilizzate per meno di quattro mesi all’anno, gli edifici provvisori, religiosi e i piccoli immobili sotto i cinquanta metri quadrati. Resta però un vincolo di base imposto dalla direttiva al quale tutti gli edifici dovranno uniformarsi: il miglioramento dell’efficienza non potrà essere messo in atto puntando solo sull’impatto benefico dei nuovi edifici, ma i paesi membri dovranno assicurarsi che “almeno il 55% della riduzione del consumo sia raggiunto attraverso il rinnovo degli edifici più energivori”. Ovvero ristrutturando le case più vecchie che non rientrano tra le eccezioni di cui sopra.

Secondo i calcoli del Politecnico, sarebbero da efficientare almeno il 43% degli immobili in classe G, cioè il 40% del parco immobiliare italiano. Un intervento che, da solo, costerebbe tra i 93 e i 103 miliardi di euro, a cui ne andrebbero aggiunti altri 80 per intervenire sugli edifici delle altre classi energetiche. Tra l’altro, per avvicinarsi agli obiettivi di efficientamento previsti, bisognerà valutare il tipo di intervento da effettuare. Il cambio della caldaia ha costi ridotti – circa 3mila euro a villetta, 25-30mila a condominio – ma un’efficacia minore rispetto a interventi come il cappotto, l’installazione di una pompa di calore o di un impianto fotovoltaico: qui i costi lievitano da 60mila ad abitazione fino alla bellezza dei 400mila per un condominio. Per non parlare dei tempi necessari a mettere in piedi le centinaia di migliaia di cantieri entro il 2030. Secondo gli studiosi del Politecnico milanese, sei anni non sono affatto sufficienti: bisognerebbe aprire 800mila cantieri l’anno.

Il tutto per un costo proibitivo, calcolato in circa 180 miliardi di euro totali. Praticamente un altro Superbonus, di impossibile attivazione per i soli conti pubblici ma difficile da finanziare anche con l’aiuto dei privati: “Mi sembra difficile che le imprese possano garantire in così poco tempo somme così ingenti” fa notare Galli. “Forse si potrebbe pensare a delle misure che riguardano le fasce più disagiate, ma questa lascia aperto il problema: quasi tutti gli immobili hanno bisogno di essere riqualificati. Senza forti incentivi pubblici è difficile che i privati si muovano da soli”. Le risorse plurimiliardarie potrebbero arrivare dall’Europa. Ma in che modo? Diversi economisti in questi giorni – si pensi a Veronica De Romanis e a Daniel Gros qui su HuffPost – hanno certificato come le elezioni dello scorso fine settimana siano state una battuta d’arresto per i piani di maggiore integrazione continentale soprattutto dal punto di vista bancario e finanziario. Anche Galli la pensa così: “Era difficile già prima del voto, a dire il vero”. Senza un mercato dei capitali comune ai 27, sarà dura mobilitare i risparmi che servono per cambiare in verde (e in digitale) il volto dell’Europa.

 

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