Dati che aveva tenuto a sua disposizione, su un supporto aziendale. Secondo la difesa l’accesso non poteva essere considerato abusivo, sia per il ruolo di direttore del ricorrente, sia perchè quest’ultimo, fino a poco tempo prima, poteva consultare i dati.
Tutte circostanze che lo avevano indotto a pensare che questa facoltà gli fosse ancora concessa dal datore di lavoro, in assenza di divieti espliciti. A suo avviso la qualifica gli apriva tutte le porte del luogo di lavoro. Entrare nelle banche dati – spiega l’imputato, facendo ricorso a un esempio – non era diverso dal farsi consegnare le chiavi di un magazzino magari per controllare gli impiegati.
Ma l’accostamento magazzino-banca dati non è vincente. La Cassazione respinge infatti la tesi del ruolo passe-partout, chiarendo che le aziende ben potrebbero inibire alcuni luoghi, come ad esempio un magazzino in cui siano custoditi determinati beni, anche ai vertici per riservarlo solo ad alcuni dipendenti. E questo malgrado nel magazzino in genere non ci siano ragioni di segretezza nè sia necessario lasciare traccia degli accessi.
Molto diverso il caso di un sistema informatico protetto da credenziali in cui «ogni soggetto abilitato ha la sua “chiave” personale (ovvero le credenziali d’accesso)». Una protezione giustificata dal fatto che «si tratta di dati che, semplicemente, il titolare reputa debbano essere protetti, sia limitando l’accesso a chi venga dotato delle dette credenziali, sia, nel contempo, facendo sì che sia lasciata, in tal modo, traccia digitale dei singoli accessi e di chi li esegua».
Ininfluente poi che la volontà del datore di escludere il ricorrente dalla consultazione dei dati, non fosse esplicita, perché era resa evidente dal fatto che lui aveva dovuto chiedere le chiavi di accesso all’impiegata. Facendo, tra l’altro «risultare falsamente che l’accesso fosse stato operato dalla dipendente che, incautamente, gli aveva rivelato le sue credenziali».
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