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Guadagnare è meritare? Attraverso quale percorso mentale si giunge ad associare il guadagno al merito? Per misurare il merito, la teoria economica ricorre al criterio dell’“equità individuale”. Nella posizione di equilibrio del modello standard, il salario del lavoratore è eguale al suo contributo produttivo. Il salario non può quindi che rappresentare la sua “giusta mercede”. Il merito è stato anche ricondotto ai “tratti caratteriali che rafforzano la produttività” del lavoratore.

Il concetto assurge così a una sorta di predisposizione dell’individuo razionale a conformare il proprio comportamento alla “teoria degli incentivi” elaborata dal pensiero economico ortodosso: il guadagno che ci si attende deve avere come corrispettivo il corrispondente sforzo lavorativo. Sotto lo stimolo per il lavoratore ad essere produttivo – il suo guadagno – il sistema economico raggiunge l’efficienza con il conseguimento di un profitto da parte dell’impresa. Sulla scia di questa concezione “premiale”, si tende a dare al merere conseguente all’impegno l’“esclusiva” della spiegazione dell’efficienza produttiva.

È lecito dissentire da quest’idea. Che l’impegno sul lavoro si colleghi al “meritare” il guadagno è fuori discussione. Il dissenso non deriva, come invece è stato sostenuto da una (presunta) tendenza a propagandare modelli sociali contrari agli incentivi al lavoro, allo scopo di svalutare il concetto di merito.

La questione sulla quale ci stiamo interrogando non è infatti se il merito, inteso come motivo per la ricompensa di un apporto lavorativo riconoscibile, abbia valore. Di certo lo ha. Il merito è senza dubbio un concetto nobile. Il problema sta altrove. Nel focalizzare l’attenzione su questo concetto si tende a prescindere da tutto ciò che precede la prestazione lavorativa.

Quanta parte del risultato economico, del guadagno, è imputabile al “merito”, e quanta invece a chi ti ha generato e a dove sei nato, ovvero alla “lotteria della vita”? Siamo tutti soliti plaudire a chi ha acquisito grandi meriti, ad esempio i ricercatori impegnati nella lotta a malattie ancora incurabili. Si tende invece spesso a dimenticare che la diseguaglianza di mezzi e di opportunità rende le persone diseguali nella capacità di far fiorire i propri talenti.

Un economista di valore, che si è molto impegnato nell’analisi economica dell’equità (fairness), ha sostenuto: «se due persone hanno erogato lo stesso impegno lavorativo devono ricevere lo stesso reddito, indipendentemente da un’eventuale differenza nelle circostanze. Derogare da tale principio perché gli individui non vanno considerati responsabili solo di ciò che è sotto il loro controllo […] conduce le teorie della giustizia in una metafisica senza uscita».

Sarà certo metafisica. Per molti resta però il problema del procurarsi il pane. Il filosofo politico John Rawls ha affermato il primato di “ciò che è giusto” su “ciò che è bene”: in altre parole il giudizio morale andrebbe rivolto in primis alla equità della “procedura”, al modo con il quale viene raggiunto un fine si batte infatti in tutte le sue opere contro l’idea secondo cui il fine di una collettività è la massimizzazione dell’utilità.

Nel campo opposto, già nel 1874, il filosofo inglese Henry Sidgwick nel suo The Methods of Ethics, affermò che “giusto” e “bene” in ultima analisi ricadono entrambi nell’alveo speculativo dell’utilitarismo. Semplificando molto, il “senso comune” suggerirebbe che il “giusto” (la giusta condotta) e il “bene” non siano scindibili.

Il punto che qui ci interessa è che Sidgwick si rendeva ben conto della difficoltà di dimostrare che alla performance di un lavoratore vada attribuito un preciso merito. Era sua convinzione che i fattori implicati siano tanti e il più delle volte intrecciati. Il merito va certamente ricompensato, ma nel risultato ottenuto dal lavoratore, come separare l’influenza dell’impegno dall’influenza dell’ambiente socio-economico? Credo che il filosofo del “senso comune” avesse pienamente ragione.

Ma, a distanza esattamente di un secolo e mezzo, pochi si interessano alla questione. Il più delle volte il concetto di merito interessa e affascina perché ha a che fare con il successo.

John Roemer (1998-2008), che è stato il pioniere degli studi sulla “diseguaglianza di opportunità”, ha fatto fare un passo avanti nella comprensione delle preferenze etiche delle persone. In luogo della generica distinzione fra l’attribuire al merito oppure alla “buona sorte” il successo che un individuo consegue nel mercato, Roemer ha pensato che la valutazione di quanto equa sia una determinata società debba prendere in considerazione anche le “circostanze” dei soggetti prima del mercato. L’economista statunitense ha dato veste analitica alla distinzione fra la “diseguaglianza giusta” (quella che dipende da un diverso impegno fra i soggetti) e la “diseguaglianza ingiusta” (quella di cui il lavoratore non ha responsabilità, perché è stata causata dalle sue circostanze svantaggiate e dal mancato accesso alle opportunità).

[…]

Un altro problema è che il “contesto”, l’odierna condizione del lavoro, allontana il merito dal guadagno. Oggi, l’offerta di lavoro poco qualificato non ha alcuna difesa rispetto alla continua caduta del salario. Contrariamente all’ideologia del mercato come meccanismo allocativo “perfetto”, questa perdita di valore non ha alcun nesso né con la produttività né con il merito. Riconoscere nella semplice prestazione lavorativa l’origine del merito è impresa temeraria, perché una caratteristica dell’attività produttiva è la complessità tipica di una joint venture qual è la produzione.

Chi ignora la complessità va incontro a un rischio: la semplice evidenza di una busta paga finisce con l’apparirgli la prova inconfutabile che la retribuzione che si guadagna nel mercato del lavoro sia “giusta”, ovvero totalmente riconducibile al livello di skill richiesto e allo sforzo erogato. Non è facile raccogliere e valutare tutti i fattori che sono alla base della performance lavorativa.

A un’indagine approfondita, si scopre quanto conti oggi il mutamento nella natura del capitale. Quello più prezioso non è quello che una volta si chiamava “macchinario”, quanto invece il capitale “intangibile”, le conoscenze dei lavoratori di eccellenza impiegati nelle nuove tecnologie. Sembra però che un posto di lavoro che dà l’opportunità di “meritare” un elevato guadagno dipenda non solo dal livello di qualificazione ma anche dalle esigenze delle imprese. Per quanto il contenuto di innovazione del digitale e della robotica con cui il lavoro si combina sia molto eterogeneo, l’evidenza empirica indica che “l’intelligenza artificiale crea nuovi compiti e nuove posizioni lavorative per i lavoratori che hanno gli skill giusti” (Oecd 2023b, p. 104).

Lavoratori che sono “pari” (peer) sotto il profilo della qualificazione professionale svolgono differenti mansioni – e quindi hanno differenti livelli di occupazione e di salario – a causa del tipo di organizzazione in cui si inserisce il rapporto fra i loro skill e le nuove tecnologie. Conta molto anche il tipo di azienda in cui si lavora, per la maggiore propensione della grande corporation all’introduzione delle nuove tecnologie. Ciascun lavoratore raggiunge una produttività di livello diverso – e pperciò una remunerazione diversa – a seconda che sia occupato in un’impresa di dimensione grande oppure piccola, dotata di tecnologie innovative oppure tradizionali.

Come si fa allora a misurare con precisione quanto del surplus dell’impresa e “merito” di un lavoratore? Un ulteriore problema è il legame del “meritare” con l’incentivo del guadagno. La “teoria degli incentivi”, uno dei pilastri della visione ortodossa dell’economia, restringe il discorso sul merito al semplice slogan “se ci si impegna si ha successo nel mercato”. L’evidenza empirica non autorizza tale certezza.

Di recente, ad esempio, si è cominciato a indagare il nesso del merito con le relazioni umane all’interno dell’azienda. Quando il lavoratore è informato della sua performance di lavoro relativamente a quella dei suoi colleghi, il suo “sistema degli incentivi” è soggetto a perturbazione: accanto al valore positivo che siamo soliti associare alla ricerca del merito, emerge il “lato oscuro” dello spirito competitivo sul posto di lavoro.

La ricerca di economia sperimentale ha documentato come la competizione funga da incentivo: aumenta la probabilità che un lavoratore adotti un comportamento opportunistico, che danneggia i propri colleghi, al fine di ottenere un vantaggio per sé.

Tratto da “Il merito tradito. Perché la mobilità sociale è scomparsa” (Donzelli), pp. 432, €33,25

 

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