Amare la propria terra.
Amare la propria e lasciarla. Amare la propria terra, lasciarla, studiare altrove, formarsi, vivere lontano per anni e tornare finalmente a casa, ormai uomo, con la necessità di affermare un’idea generatrice di un progetto originale, ambizioso e coraggioso.
Investire i propri risparmi sulla terra che si ama, lavorarla, sporcarsi le mani di quella terra, impararne i ritmi e la chimica, conoscerne i tempi, assistere al progetto che prende forma e colore e sapore. E poi decidere che vale la pena raccontare la propria storia, il proprio percorso.
Metterci la faccia, la voce e vincere l’imbarazzo di parlare davanti a un pubblico. Mettere in piedi una community che oggi conta migliaia di iscritti, interazioni e condivisioni. Condividere informazioni, ascoltare i più esperti, confrontarsi col mercato, imparare dai propri errori, correggere il tiro, andare avanti dove si pensa di aver ragione. Trasmettere positività.
La sfida di Matteo Pala fra tradizione e innovazione
Matteo Pala, 31enne di Bitti, dopo aver conseguito la laurea in Viticoltura ed Enologia all’Università di Pisa, la specializzazione in Agraria a Bologna e l’abilitazione come agronomo, è oggi il volto di “Segni di Terroir”, un progetto di comunicazione sui social legato al suo lavoro come viticoltore.
Quanto costa l’attrezzatura per vendemmiare, a cosa serve un rifrattometro, come effettuare la defogliazione sul grappolo maturo, come riconoscere la peronospora, come curare il vigneto dopo una violenta grandinata. Sono tante le questioni, da quelle basiche a quelle più tecniche e complesse, che Matteo affronta nei suoi video sempre più cliccati e rivolti a un insieme di utenti variegato e attento che impara insieme a lui a misurarsi con un lavoro meticoloso e gratificante. Lo abbiamo intervistato.
Quando è nata l’idea di raccontare la tua esperienza sui social?
«Ho pubblicato il primo video su YouTube poco più di due anni fa. Vengo da una famiglia di tradizione agropastorale, a casa si sono sempre allevate le pecore. Mai nessuno aveva investito in ambito vitivinicolo in maniera professionale. Ma ci ho voluto scommettere e l’ho fatto con l’intenzione di condividere un percorso».
Qual è il valore di raccontare un percorso di questo tipo sul web?
«Fin da subito ho pensato che la comunicazione avrebbe potuto rivestire un ruolo fondamentale nel mio progetto. L’idea era quella di far innamorare le persone di un processo, documentando in maniera puntuale e precisa tutte le lavorazioni che andavo a fare dalla messa a dimora delle piante in poi. I primi video sono molto amatoriali, non avevo mai fatto qualcosa del genere. Poi ho imparato a montare, a capire i tempi e a capire i social, perché ogni piattaforma ha un linguaggio differente».
Il vino non è esattamente il prodotto principale dell’economia di Bitti, la tua è anche una sfida dal punto di vista territoriale e culturale.
«L’antropologo Michelangelo Pira diceva che a Bitti la ricchezza si misura in pecore. La nostra è un’economia basata sulla pastorizia con aziende molto importanti. Ma abbiamo terreni molto vocati alla coltivazione della vite. Solo negli ultimi anni sono nati vari progetti che stanno crescendo con successo. Io sono il più giovane».
Quali sono le difficoltà per un’impresa come quella che stai mettendo in campo?
«Ci vuole tanta buona volontà, un buon supporto sia economico sia di idea. In agricoltura il problema principale è che per vedere il frutto del proprio lavoro ci vuole veramente tanto tempo. Non ci sono solo le belle giornate di primavera. Fare l’agricoltore seriamente significa combattere con tanti fattori, reinventarsi ogni giorno, basta una giornata storta e il lavoro di un anno è perduto. A quel punto serve una buona base per rimanere a galla».
Come hai imparato a coltivare la vigna?
«Il mio percorso di studi mi ha aiutato ad approfondire determinati aspetti. Poi dalla teoria alla pratica cambiano molte cose. Ho messo le mani in pasta, mi sono informato, ho letto, ho raccolto i consigli dei colleghi più esperti. La cultura personale è importante per riuscire a filtrare le informazioni ricevute e capire quali fanno al caso tuo. L’unica cosa che non si può comprare è l’esperienza».
In questo racconto sui social c’è anche un’utilità di ritorno per te? Ti capita di ricevere suggerimenti e consigli dai follower?
«Sì, ma tendo a non ascoltarli troppo. Non per presunzione, ma perché nel mondo del vino bisogna saper contestualizzare. Ogni situazione è diversa, quando si fa enologia artigianale non si lavora in serie e molto dipende dalla zona dove si lavora».
L’altra faccia della medaglia sono le critiche. Ne hai ricevute? E come le hai accolte?
«Più hai visibilità, più le critiche aumentano. Le critiche costruttive sono sempre ben accette e aiutano a migliorare la comunicazione: quando si fanno determinati contenuti si cerca di sintetizzare, non si può entrare nello specifico di certi dettagli e a volte qualcuno sottolinea le semplificazioni. Poi ci sono le critiche fini a sé stesse, ma ho le spalle larghe e quando ho scelto di mettermi in gioco sui social ho messo in conto anche questo».
Che vitigni coltivi?
«Cannonau e bovale. Sono ancora nella fase della sperimentazione, voglio crescere di più con la vigna, ma per il momento devo capire come reagiscono e come vanno le piante. Non essendoci un pregresso, è importante capire quale direzione prendere».
Hai già prodotto la tua prima annata, come è andata?
«Quest’anno abbiamo assaggiato i primi vini: un rosato di cannonau in purezza e un rosso cannonau e bovale. Sono molto soddisfatto, ma c’è ancora tanto cammino da fare. La bottiglia non è ancora sul mercato. Burocrazia permettendo, prevedo di esordire il prossimo anno con due etichette».
Come nasce il nome del tuo progetto “Segni di Terroir”?
«Michelangelo Pira, in un passaggio del libro La rivolta dell’oggetto, si confronta con un agricoltore sul fatto che il segno lasciato da un aratro nel terreno è simile a quello lasciato dallo scrittore con una penna su un foglio. È una suggestione che mi piace molto a livello concettuale e pratico, perché credo molto all’ambizione di lasciare un segno col mio progetto. “Terroir”, invece, è un termine francese legato al discorso di terra, ma con un’accezione più ampia. Il terroir è un insieme di caratteristiche del suolo, del luogo, del clima, della vite, delle persone. Una sintesi di tutto quello che è il mondo della coltivazione e di quello che è il vino per come lo intendo io: molto più che un semplice prodotto».
Quali sono le caratteristiche del terreno che lavori tu?
«La mia azienda si trova in località Siddu, il terreno è fondamentalmente sabbioso e argilloso con un po’ di fondo granitico. Queste caratteristiche garantiscono un grande potenziale chimico-fisico. La vigna, inoltre, ha una buona esposizione al sole per quasi tutto il giorno tutto l’anno ed è incanalata tra delle colline è gode di un’areazione quasi costante che preserva le piante dalle malattie».
Studiare a Pisa e a Bologna per poi tornare in Sardegna e scommettere sulla propria terra. Si può ancora fare.
«Certo, anche se non è facile. Siamo legati alla nostra terra, ma non sempre ci sono le condizioni affinché i giovani con idee possano far fiorire qui i propri talenti. Spesso mancano le opportunità lavorative adeguate a coronare lunghi percorsi formativi, tanti giovani sono costretti a lavorare lontano da casa. La Sardegna ha potenzialità incredibili, ma si vive sempre la dualità di una condizione geografica che ci fa sentire protetti, ma ci tiene anche isolati. Le distanze, però, oggi si sono ridotte grazie a internet e, sebbene viaggiamo ancora a velocità un po’ diversa, dovremmo lavorare tutti per trovare il modo di amplificare il nostro ruolo nel mondo facendo dei nostri limiti un punto di forza».
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